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da Gazzetta di Parma 14 agosto 2002:

Il seme magico

Continua, intrepida, l'avventura di Umberto Piersanti, non cedono ai ricatti della Storia i suoi passi solitari. Anzi, sempre più viva e dolorosa, sempre più arcana e intensa è la voce con cui egli dipinge il suo mondo.
La nuova raccolta poetica di Piersanti, Nel tempo che precede (Einaudi)si affianca agli indimenticabili Luoghi persi del '94 prolungandone e radicalizzandone i grumi di luce e tormento, gli incanti, le ferite e gli strazi. Due universi, insieme comunicanti e incommensurabili, si dispiegano nel libro: il paesaggio verde e cretoso delle Cesane, scena intrisa di doni e fitta di presenze turbative, di "esseri strani"; la tela umanissima e struggente della vita famigliare, quadro palpitante di fiammelle e di volti assediati dall'ombra.
Benchè contigui questi due mondi sono irrimediabilmente diversi. Il mondo "di fuori" (il bosco, i prati, le pietre, i fiori, e tutti gli animali, gli uccelli, i serpenti, gli insetti che lo popolano, che lo spiano e se ne nutrono, ognuno confitto nel suo destinoincomprensivo di ferocia e paura, d'innocenza e d'orrore) è un precipitato di puro mistero: è un corpo forse senz'anima, o con tutte le anime (degli dèi e dei folletti, del fuoco e dell'acqua, del veleno e del miele, dell'oro del sangue): è promessa impossibile dei tesori sepolti, e favola vampiresca sinistra:è occasioni di incontri miracolosi (con le fate, con l'arcobaleno) e trionfo di colori esotici, sontuosi: è epifania di "segni" inquietanti, e offerta senza fine di frutti (al limite, tutto qui è commestibile: un prato è "morbido / più del pane appena cotto"; il lupino si sciolglie, a masticarlo, in un succo dolce quanto un vino; e anche la luce e l'aria si possono bere, e sanno ubriacare).
Nulla di idilliaco sovrintende a questo paesaggio; una violenza segreta, senza nome o perchè, è sempre in agguato tra le sue dolcezze; e anche gli incontri più fiabeschi hanno, tra questi boschi e colli, il riverbero di un rischio, l'alone onirico di un cammino mai protetto. Ma c'è qualcosa, qui, che sottrae gli esseri al peso della finitudine, che li rendi tutti, in qualche modo, immortali: un seme magico, un tocco degli dei: o forse, più semplicemente, una scansione circolare del tempo, grazie a cui tutto ciò che muore rinasce, tutto ciò che è perso si ritrova, e la vita, per un attimo incupita, può di nuovo dispiegare i suoi colori.
Ben altro è il destino assegnato dalle potenze invisibili all'esistenza del poeta tra le mura domestiche, nel sviluppo tenero e avvolgente della famiglia. Anche questo mondo pullula di doni: di volti e i gesti del padre e della madre, e con essi tutto un intreccio di ricca povertà e di umana bellezza, di piccole cose ( uno "stradino" amatissimo, il tocco rassicurante di una mano, una veste "leggera" e splendente) e di respiri profondi come la musica stessa dell'anima, risorgono con un'evidenza icastica e trepida, molto proustiana, dalle cavità della memoria. Ma anche questa bellezza è stretta nella morsa dell'ombra, e l'ombra, qui, non potrà svaporare nell'incontro con la luce perchè il tempo dell'umana esistenza è un cammino senza ritorno, è una<strada a precipizio verso il nulla; e le figure che lo popolano non possono avere altra consistenza che quella, straziante, dei fantasmi di un'immedicabile nostalgia.
Malgrado il bisogno disperato di fare della parola un sortilegio per "incantare" il tempo perduto, per sottrarlo alla fatalità del suo perdersi, per curvarlo verso il presente - o per tornare "a monte" degli anni, nel "tempo che precede" il dolore, in quella specie di mucleo originale dell'essere, di delicatissimo eden domestico in cui tutto sembra possibile, perchè la vita non era ancora sfiorata, dall'ala dell'angelo della morte -, il poeta non può cedere alle illusioni: la sua passione proustiana è sempre contraddetta da un'amara coscienza leopardiana. Il tempo umano non può ritrovarsi davvero, la memoria non può risarcire la vita della sua evanescenza. Dopo i giorni dell'infanzia "non c'è più stata / la luce così forte": mai più i colori hanno brillato come "allora": mai più la spagnara è stata così azzurra, il lupino così rosso, la veccia così viola, il caprifoglio così arancio.
La poesia, comunque, non può nutrirsi di rinuncia, pena il suo stringere nel grigiore. Una sete inesausta di luce spinge senza tregua il poeta a piegarsi sulle proprie radici, per tentare di salvarne tutte le linfe ancora possibile. E d'altronde la vita non continua forse anche il autunno e d'inverno? Vivere cosa può essere se non accogliere, fino all'estremo, tutto ciò che il destino ci riserva?
Nella seconda parte del libro, è la figura del figlio del poeta, Jacopo, ad accamparsi al centro del quadro con la forza inerme e drammatica, dostoevskijana, delle creature marchiate dal destino. Pochi personaggi della poesia italiana degli ultimi trent'anni possono reggere il confronto con la silhoutte candida e vacillante di un bambino murato nel "castello" di una malattia incomprensibile. Dopo un brevissimo tempo libero dal male (tempo che, al fuoco del ricordo, appare una fiaba piccola e infinita, o uno scenario illusionistico, rutilante di colori impossibili), la vita di Jacopo si è trovata prigioniera in una "stanza remota", senza accessi. Eppure una strana grazia tinge tutti i suoi gesti, le sue corse a perdifiato, i suoi passi. Benchè sfuggente all'amore doloroso del padre (che invano vorrebbe essere per lui ciò che è stato il proprio padre nei suoi confronti), Jacopo transita per il mondo con la leggerezza degli uccelli o degli angeli, capace di abbandonarsi all'abbraccio dell'acqua con una sicurezza miracolosa: capace di lasciarsi cullare sullo specchio di un lago fino al tramonto, sordo a ogni richiamo, la testa indietro, il volto perso nel fondo del cielo.
Nel corso di questo bellissimo libro, il sentimento del tempo alimenta la voce di Piersanti come una coazione alla fuga. Il tempo concesso è sempre più breve, e anche i versi si contraggono e rimbalzano: l'endecasillabo s'incide e frantuma, si segmenta incalzando, pulsando e ritagliandosi echi e controechi che a tratti ricordano i contrappunti di Caproni. Ma in questa vertigine resiste, a ben vedere, qualcosa come un inconfessabile sogno utopico, come un desiderio d'eterno, di cui Jacopo abbandonato sulle acque, in dialogo muto col cielo, è la "figura" alta e indimenticabile. Eppure, fino all'ultimo, il libro ci parla dell'impossibilità per noi di raggiungere l'eterno - o della sola chance a noi concessa: toccarlo unicamente per istanti, intravederlo per frammenti di luce. Nemmeno il cielo che Jacopo contempla è immune dal cambiamneto: la luce che era appena prima, già ora non è più: e per tutti noi "l'eterno è questo attimo / già perso".

Paolo Lagazzi

 
 
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