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da Poetarum Silva 05 aprile 2021:

UMBERTO PIERSANTI, CAMPI D’OSTINATO AMORE
di Daniele Piccini


Quando penso a Umberto Piersanti, che conosco ormai da tanti anni, mi viene in mente il Saba cantato da Sereni in una poesia degli Strumenti umani: «Sempre di sé parlava ma come lui nessuno/ ho conosciuto che di sé parlando/ e ad altri vita chiedendo nel parlare/ altrettanta e tanta più ne desse/ a chi stava ad ascoltarlo». Piersanti parla di sé anche nella propria poesia (ricordo che una volta un critico della mia generazione lo accusò di “bovarismo”), una poesia centrata sulle stagioni della propria vita e su un tenace sentimento di sé. Non c’è dunque, da parte del poeta, pudore nel confessarsi in versi, ma la coscienza che scendendo nella verità e autenticità, nell’onestà, della confessione di sé, tutti gli altri possano riconoscere in quell’immagine una parte della propria stessa traiettoria. Ad esempio dice l’autore in una poesia di Campi d’ostinato amore (La nave di Teseo, pp. 176, € 19,00), intitolata Oggi a Camorciano, davanti alla casa antica: «per ogni generazione/ c’è un’età immortale». Nel libro, per l’appunto, Piersanti con tenacia, anzi con l’ostinazione del titolo, seguita a ritrovare i segni di ciò che è stato, di un’età ormai leggibile solo attraverso il filtro della memoria e invita dunque il lettore a fare altrettanto. È anzi, questo, un libro quasi interamente memoriale, come suggerisce il titolo della prima poesia (e della prima sezione): Il passato è una terra remota. Il poeta si immerge proprio nel Remoto, nello Sconfinato (è lui stesso ad usare queste espressioni con la maiuscola), si perde dietro alla voce e al conto, alla fola di un Antico. Nel fare questo, Piersanti usa uno schema dialettico che è permanentemente in atto: distruzione e cancellazione contro permanenza e conservazione. L’avanzare inesorabile, inarrestabile, dei giorni confonde le tracce, il poeta con la sua parola le riporta alla vista, le rimette davanti a sé e agli altri, per ricordare, e ricordarsi, il nesso sottilissimo e inscindibile tra perdita e ritrovamento.
È tutta una recherche appenninica e contadina quella che Piersanti tenta di dispiegare nel libro. Dove la domanda di fondo riguarda lo statuto e il ‘luogo’ delle cose recuperate e ritrovate nella memoria: ombre, fantasmi, proiezioni oniriche della mente? O sostanza, sostanza che non si perde mai veramente del tutto, che rimane incisa nel sangue, come il poeta dice, e forse altrove? Questo dilemma è in ultimo quello che si agita al fondo di tale poetica della memoria, che non è dunque regressiva né idillica, ma conoscitiva ed esistenziale. Perché la domanda fondamentale riguarda ciò che permane nella trasformazione (si veda la poesia Metamorfosi e la sua chiusa: «e ricerchi ostinato/ se qualcosa/ dietro ogni metamorfosi/ permane»). Ecco, dunque, l’ostinazione del titolo nell’amare pervicacemente ciò che il tempo ha dilavato via, fino a interrogarsi sulla sua permanenza e consistenza al di là del dileguo. Le cose sono? o sono soltanto state? Questa, forse, è l’interrogazione filosofica del libro, a cui laicamente si risponde sempre con un margine di dubbio e di trepidazione: sono state, si perdono lontane, eppure ancora sono, qui e ora, almeno nell’attimo di richiamarle in parola, di dirle nella loro fuggevolezza eterna.
Mi pare proprio questa, nell’insistenza e iterazione dei motivi, la nota culminante del libro e mi pare questo anche il suo suono di fondo, come il poeta chiarisce fin dalla chiusa della prima poesia, la già citata Il passato è una terra remota: «salgono le memorie/ fitte alla gola,/ e se tendi la mano/ quasi le tocchi,/ ma il muro che le cinge/ è d’aria o vetro,/ nessuna forza/ lo può oltrepassare// il passato è una terra remota/ magari non esiste,/ non sai dove». Il poeta abita e attraversa quella memoria, si lascia invadere da essa, ne perlustra il corpo, fino a sbalzare figure e volti, a forza di insistenza e ostinazione. Il verso di Piersanti torna qui, come in alcune stagioni precedenti, a frangersi, a spezzarsi in versicoli brevi o minimi, ma non senza preservare il ricordo, l’orizzonte della misura tradizionale (l’endecasillabo, in particolare), anche in questo caso con una dialettica tra rottura e recupero, tra spezzatura e ritrovamento. Quanto alla lingua, il poeta delle Cesane rasenta il dialetto senza praticarlo pienamente; scrive con la mente tesa alla nominazione, fino al recupero di voci ed espressioni regionali e locali, che fanno percepire la faglia, la linea di confine tra italiano e coscienza di un sostrato potente e ‘altro’. Siamo ancora nei pressi di un confine (tema a cui è dedicata una poesia centrale nel libro): Piersanti arriva ai limiti estremi della propria poetica, la tende, fino a rivelare l’agonismo e l’inquietudine sottile che sottendono una poesia che potrebbe parere, e non è (almeno non propriamente) elegiaca.

 
 
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