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dalla Rivista TESTO - Studi di teoria e storia della letteratura e della critica n. 57, nuova serie, anno XXX, gennaio-giugno 2009 - Fabrizio Serra Editore:

UMBERTO PIERSANTI, L’albero delle nebbie, Torino, Einaudi, 2008, pp. 176

Che Umberto Piersanti sia il più intenso, il più ispirato dei poeti oggi in circolazione in Italia, dovrebbe balzare agli occhi di tutti, se solo i lettori non si facessero troppo condi­zionare dalle sottili censure e dai complicati protocolli eretti da decenni intorno al mondo della poesia: basterebbe limitarsi a leggere, ad ascoltare la trama di suoni e di pensieri, di miti e di racconti, di tempo e di natura che solo i veri poeti sanno tessere con la semplicità e la purezza — la limpida trasparenza — che i versi sempre richiedono. Eppure Piersanti (nato a Urbino, dove tuttora insegna all’Università, nel 1941) ha faticato non poco ad essere accolto dalla grande editoria (solo del 1994 è il primo dei tre volumetti einaudiani): in parte, certo, per la sua natura animosa e intransigente, e magari anche per esser vissuto lontano dai grandi centri dove si decidono pubblicazioni e consensi; ma soprattutto, e pa­radossalmente, perche troppo in anticipo sui tempi, troppo controcorrente rispetto agli standard allora vincenti, troppo radicata nella nostra tradizione, troppo indifferente alle mode era stata fin dall’esordio (1967) la sua poesia, affondata in un piccolo mondo arcaico e rurale («l’antico / scuro fosso ventoso / dei giorni miei, / remoti», p. 54), rivissuto con la precisione di uno sguardo contadino e insieme la raffinatezza di un uomo imbevuto di nobili e generose letture (la sua Aminta, il suo Leopardi), trascritto in forme memora­bilmente limpide, sublimato insomma in canto: un canto magnanimo, come dice il titolo di un lungo libro-intervista — tutto da leggere — uscito per la cura di Roberto Galaverni e Massimo Raffaeli (Il canto magnanimo. A colloquio con Umberto Piersanti, Ancona, peQuod, 2005). Come poteva essere accolto, d’altronde, un giovane poeta che nel 1971 scriveva di considerarsi «estraneo all’anno / di gente rovesciata nelle piazze / dei giovani serrati / coi drappi rossi negli edifici / fermo nell’Appennino remoto / immemore del tempo / sciolto dalla catena» (Primavera 1968, in Il tempo differente, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1974)?

Già in quei versi ormai lontani, Piersanti, che pure non rinunciava a schierarsi nella vita pubblica, e che anzi presumeva fin d’allora di poterlo fare con un’intelligenza libera, fondata sulla fiducia che si possa infine — e si debba, sempre — far lume con chiarezza e moralità sugli eventi umani, poneva al centro del suo mondo poetico un luogo «remoto» e «immemore», inesauribile nella sua carica poetica e umana, lo stesso che ritroviamo — negli esiti più maturi e felici — nel trittico einaudiano composto da I luoghi persi (1994), Nel tempo che precede (2002) e il più recente L’albero delle nebbie (2008).

Basterebbero i primi due titoli (ma la sezione inaugurale del volume più recente s’intitola, eloquentemente, In un tempo remoto) a dar conto di quali «luoghi persi», di quanto «tempo remoto» si nutra appunto il mondo di questo poeta, che alla dispersione inevitabile del tempo oppone non solo una memoria mitica e favolosa — che si spinge fino all’inimmaginabile, vertiginoso e compiuto («o stagione perfetta! / io non ci sono», p. 41) «tempo che precede» — ma anche una prodigiosa tavolozza di nomi (propri e comuni) attinti all’universo — selvatico, contadino, impervio, terragno — delle sue Cesane. Se di matrice pascoliana è il ricorso a un vocabolario locale (di cui si da spesso conto nelle note), così come la precisione dei suoi prodigiosi (a tal punto da parer magici) erbari e bestiari, di leopardiana e idillica vaghezza sarà invece l’impressione complessiva che tale poesia produce su chi legge: tanto è il senso di dolcezza e di tenerezza che provocano le sue evocative narrazioni, improntate a una sorta di oralità pura e ispirata che commuove per il senso di verità, struggente e oggettivo, che riesce ogni volta ad esprimere. Diviso in tre sezioni (In un tempo remoto; Jacopo; Tra cronaca e memoria: titolo, quest’ultimo, che già chiudeva il volume precedente) e preceduto da un breve prologo (Sulle mura d’adolescenza), questo Albero delle nebbie (lo scotano, il cui «acceso colore rosso-arancione», come leggiamo in nota, «nei giorni d’autunno attraversa anche la nebbia più folta», e si presta dunque a farsi correlativo oggettivo della memoria del poeta) non potrà essere scorporato dai due libri precedenti, con i quali andrà anzi a comporre un affresco assolutamente unico, prodigioso per la nettezza e la chiarità della visione, la semplice e forte poesia delle descrizioni e dei racconti (in cui vicende pubbliche e private, guerra e infanzia si saldano in un unico sguardo), la sobria ed evocativa bellezza delle lasse strofiche, fondate sul potere suasivo di settenari e quinari, che non di rado vanno nascostamente a ricostituirsi in endecasillabo («dopo la pioggia cessa / l’alba inizia / in una luce fredda / che dissolve e figure / e memorie tra muri / e campi, lo stradino d’erbe / su per il fosso / al giorno che non ami», p. 155). Se nella prima sezione affondiamo nell’infanzia più remota del poeta, restituita attraverso una trama minuziosa e lucente di nomi (veri e propri numi-custodi della mente) e di frondose, delicatissime sensazioni (soprattutto visive), nella seconda e la figura del figlio Jacopo, chiuso fin dall’età di quattro anni in un castello inespugnabile di emozioni e di pensieri, ad accamparsi. E qui sorprende come, rinunciando a ogni effetto patetico o manieristico, il poeta sappia commuoverci con la semplice e umana verità dei fatti, senza alcun infingimento ma anche senza alcuna ostentazione: «tu, immune alle parole», così inizia la sezione, ponendo fin da subito al centro la crudeltà di un «male» che non solo isola il figlio dal mondo, ma ferisce il padre proprio in ciò in cui egli più ha creduto (le «folte parole», le «fitte figure / che gli covano dentro / e vanno a fuoco», p. 65), insomma nel potere suasorio e affabulatorio della parola. E il tema della paternità non può che rimbalzare all’indietro, con il pensiero, fin dall’inizio della terza sezione, al padre del poeta che in piena guerra, lontano dai suoi, sull’altra sponda del mare, pensa al figlio che nascerà: «che età era quella / padre dal volto asciutto / quando coi miti tuoi compagni d’armi / quelli di Ca’ Morciano, / di Che’ Gino e Isola del Piano, / sei venuto qua, oltre il mare? / un lunghissimo giorno / sulla Gran Pozza / salata e fonda / e poi tra questi massi brulli / dove il ribelle si nasconde, / magro nei larghi panni grigioverdi, / e qual è a Sebenico l’osteria / dove mangi formaggio scuro / e guardi il mare? / t’aspetta la tua donna dall’altra parte, / io gli cresco dentro, / il tempo che precede già finisce / a me ch’esco alla vita / forse pensi» (p. 97). Quanti Natali, quanti Magi, quanti presepi, quanti pastori e «pecore immobili» (p. 38) in questo libro che rinnova il racconto della Sacra Famiglia attraverso la memoria della famiglia del poeta, chiusa in cerchio nel suo piccolo grembo arcaico, sovrastata da luci favolose, avvolta da nevi e nebbie, in cui i nomi del padre, della madre, della sorella dal «passo sicuro» (p.146) si fanno nomi di una felicità, colpita sì dalle leggi del tempo, ma inaffondabile nella sua numinosa pienezza. Che cosa cerca, d’altronde, l’umile cantore e cronista di questo mondo così lontano, con le sue parole così intrise di solitudine («sempre m’aggiro solo», p. 188) e di una vibrante malinconia, se non di cogliere il sentimento epifanico della nascita, del semplice venire al mondo, dello stupore che ci prende dinanzi al prodigio di una neve che scende, di una minestra che fuma sulla tavola, di un fiore «azzurro più dell’aria» (p. 56), di un mattino che ci appare all’improvviso così «rado e luminoso» (p. 35)? Le Cesane sono un mondo arcaico, dai connotati anche aspri e realistici, ma rielaborato in profondità, fantasticamente, attraverso il ricordo, avvolto di una luce mitica: perciò divengono un luogo della poesia, un altrove che, pur conservando le tracce della sua verità contadina, sconfina nell’universo dei vasti, immaginosi, felici pensieri.

Anni e anni di sciocchezze politicamente corrette sulla vita che deve entrare in poesia, sulla poesia che deve attingere alla realtà, ci hanno come induriti, spinti alla cautela e alla diffidenza ogni volta che ci imbattiamo nei temi che Umberto Piersanti ha voluto circoscrivere nei suoi libri: ma qui si tocca con mano come in poesia ben poco contino le poetiche, e tanto invece la qualità di visione che il poeta sa trarre dal suo mondo, la verità di lingua e stile in cui sa riversarlo. Non so dove si possano leggere, oggi, pagine più dense, umane, misurate di quelle che Piersanti ha dedicato al figlio Jacopo, alla madre (sul cui meraviglioso e freschissimo riso si chiude il libro), al padre Giuseppe, alla «sorella forte» (p. 145) che eternamente lo prende per mano, ai boschi delle sue Cesane, alla festa del Natale o dei Magi: tutti argomenti su cui altri rischierebbero di cadere nel melenso o nell’intellettualistico. E invece Piersanti sa trovare, qui come nei due volumi precedenti, una tale delicatezza di toni, restituire un senso così profondo di armonia, farti sentire davvero, fuor di ogni retorica (le retoriche dei quotidiani e delle riviste, dei racconti e dei romanzi che non riusciamo più a leggere, tanto è il senso, l’odore anzi, di falso che emanano), la profondità della vita, la sua bellezza arcaica, severa: la sua neve è vera neve, la sua acqua vera acqua, il suo strazio vero strazio, la sua gioia vera gioia. E i suoi versi, veri versi, che verrebbe voglia di leggere e rileggere continuamente, a voce alta o no, trovando in essi una musica segreta, un rimuginìo interiore che si fa respiro del mondo, canto del mondo, pietà per la dolente condizione umana: «e m’inoltro lento / in questo secolo diverso, / dentro ho ancora il fiato / delle sorbe, l’inchiostro nero / che gocciola e s’allarga / nella carta che assorbe / e poi si disfa, / l’odore della paglia masticata / in quella casa persa / in fondo al fosso» (p. 114).

Giancarlo Pontiggia

 
 
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