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da Il Sole 24 Ore 23 marzo 2008:

Restituirsi alla natura

Una tradizione dell'Italia centrale annovera, non solo alcuni dei poeti più importanti di ogni tempo - Dante, Petrarca, Leopardi, pascoli, D'Annunzio - ma, come sappiamo, è anche alle origini della nostra parlata nazionale. Certo l'italiano di oggi è una stanca controfigura di quella lingua: penso all'assoluta distanza del linguaggio scolastico o televisivo dal retroterra naturale di quel tempo. Lo aveva ben capito un poeta di Ancona, Franco Scataglini, che aveva fatto della lingua delle origini un tessuto rinnovato della sua poesia. ben ricordo una sua caustica osservazione: «è difficile camminare se ci si taglia i piedi», alludendo all'uso popolare della lingua, e a quasi un secolo di derisioni e ostracismi alle parlate e alle culture popolari in nome di una presunta "purezza linguistica".
Ed è proprio questo approccio alla cultura e al dire della gente comune della sua terra, insieme alla memoria delle vicende semplici e complesse degli uomini e all'osservazione della natura, che mi fanno ritenere Umbero Piersanti uno dei poeti più originali e degni in questo periodo di “moderni e post” e stantie retroguardie letterarie. Tra queste pagine de L’albero delle nebbie, ancora edito da Einaudi dopo I luoghi persi (1994) e Nel tempo che precede (2002), finalmente si torna a respirare: «S’addensano le vespe / su quell’uva dagli acini / fitti, pcini, pcini, /ma nel filare sopra / la bersigana splende rossa / e gonfia, la staccano le donne / e nei canestri gocciola piano, / fa l’aria buona, / e c’è la luce ch’entra dappertutto, /anche tra l’erba con le noci rotte…»
Qualcuno parlerà di arcadia, o di “fuga dai problemi”, ma quanta contemporaneità in questi versi, quanta realtà finalmente raccolta da una sapienza musicale. C’è la natura dell’Urbinate – e si dimentica sempre che è una natura lavorata dall’uomo e così ricca dei tanti umori che ci nutrono pur in questa società apparentemente dominata dalla tecnica – ma ci sono anche i personaggi, le memorie care, il dolore di un padre e la paziente cura del figlio: «ma tu non guardi, Jacopo, / solo ascolti il moto / delle macchine e del mondo, / non t’appartiene il vischio, / il primo fiore giallo, / bagnato dentro l’erba, / quale gran falco che plana / tra gli ornelli // tenace ritento la scommessa, / segno col dito / scendo, colgo il viburno / bianco, nella tua mano / lo serro / -questo è un viburno - / ripetilo – viburno - / tu non ami le soste, / non guardi i fiori, / ma la strada t’assilla, / sempre lì torni». Raramente una musica della lingua si accompagna alle emozioni del vissuto, raramente un ritmo scandisce il suono di una voce sottolineandone le sfumature come in questo libro. Ogni volta sembra di vedere e sentire tra le fibre dell’esperienza. Certo, un giorno ho provato anch’io sulle Cesane dell’Urbinate, accompagnato da Umberto, il fascino di quelle colline «a ridosso dei monti / dove ha termine il mondo, / le rupi di confine / fitte di muschio scuro» e mi ha colpito la sapienza di questo poeta che mi fa toccare di nuovo gli alberi, i fiori, gli uccelli, riascoltando l’odore e il rezzo delle stagioni, riscoprire la segreta vita dei luoghi. Riassaporarle ora, le Cesane, in sequenze di ritmi e suoni, è una meraviglia, come il sentire l’aria di quel mare tanto amato: «Mare che allevi gigli / fitti e chiari nelle sabbie / e del ginepro spargi i frutti / lucidi e perfetti». Davvero ci si riconcilia con la poesia e con la lingua.

Franco Loi

 
 
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