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di PAOLO LAGAZZI - QUIDCULTURAE.COM:

Umberto Piersanti "Nel folto dei sentieri"
Marcos e Marcos, 2015

Come molte liriche di Attilio Bertolucci, i versi più belli di Umberto Piersanti sono gli echi, le cadenze, i frutti di un inesausto, vibrante cammino. La vita chiama, non ci si può sottrarre… Anche la nuova raccolta del poeta di Urbino “Nel folto dei sentieri” è un intreccio di gesti, sguardi, respiri tra macchie, radure, forre, calanchi, crinali ancora ardenti di luce, ma minacciati da un “tempo nuovo” di ombre, cose assurde, plastica, metalli, fantasmi. Incapace di accettarne le scosse e i sussulti, spesso il protagonista sente il bisogno di sostare osservando ciò che gli appare incomprensibile: il “fiume” incessante del reale, e in esso il pulllulio degli umani, i loro volti, le loro voci, i loro viaggi vuoti, senza senso.

Subito dopo, tuttavia, il richiamo dei sentieri tra i carpini, le querce o gli ornelli rinasce, il respiro ritrova il suo ritmo, il passo di nuovo s’inarca come un’ultima fitta di eros… Tutto ciò che resta di vero si annida tra le pieghe dei momenti, nel sapore segreto delle occasioni, nel profumo dei fiori, delle foglie e dell’erba, o è una serie di doni, scintille, evocazioni della memoria – evocazioni labili come lucciole fuori stagione o fotogrammi bruciati, eppure ancora capaci di suscitare dal fondo del passato attimi epifanici, colori irripetibili, morbide estati o Natali corruschi, prati azzurri e nevi d’argento, figure insieme evanescenti e immortali, fragili come l’aria e icastiche come sacre icone.

Esposto più di qualsiasi altro testo di Piersanti al sentimento dell’indecidibile, perennemente sospeso tra ciò che è e ciò ch’è stato, fra la dura minaccia del nulla e un bisogno inesausto di abbandonarsi alla rêverie, “Nel folto dei sentieri” è un libro ricco di contrasti: stretto, da un lato, dalla morsa del tempo in fuga, dall’altro evoca “l’Aperto”, il seme immenso del possibile, o afferma che “il tempo non esiste, / va avanti e indietro”, ci soffoca e ci carezza; incerto come un viluppo di brume purgatoriali, sa sempre, miracolosamente, cogliere delle apparizioni vivide, delle immagini salvifiche: una margherita fiorita nel cuore dell’inverno, il rosa “tenace” dei ciclamini vincente sulle voragini del grigio…

Questo movimento a zigzag non ha tregua. Non c’è un punto d’approdo: la vita è anche morte, ogni bellezza è attorniata da siepi di spine. Il figlio Jacopo ha smarrito la propria grazia infantile, il suo riso “stridulo” inquieta chi lo sente, e se condivide ancora col padre il rito del presepe le sue mani forti si accaniscono a sbriciolare “la terra attaccata / sotto il muschio”… Eppure non ha senso cedere a pensieri disperati: ogni mattina fresca d’aria azzurra invita alla dolcezza dei ricordi, ogni estate “riscalda” il sangue, rinnova gli occhi e le mani. Tutto è meravigliosamente e dolorosamente in bilico: ciò che seduce è anche ciò che condanna: le libellule in settembre sciamano “diafane e fitte”, di continuo esposte alla cattura ingorda dei balestrucci, “ma riprendere il volo / è necessario”…

Una volta che abbiamo compreso che nessuna certezza ci attende, forse dovremmo solo trovare in noi il coraggio di essere, fino in fondo, leggeri, forse dovremmo solo camminare, abbandonarci: “chi non sa dove andare / meglio cammina, / nel buio che s’annuncia / conviene perdersi, / i sentieri tra i campi sono infiniti, / la fonte sta dovunque / o in nessun luogo”.




Un giorno non come un altro nella vita

salgono per greppi
e sui costoni
mai così fitti
e alti e luminosi
i papaveri rossi,
t’entrano nella macchina
come lampi,
trapassano vetri
e specchi
s’intrecciano sugli occhi
e tra le mani,
ebbra la corsa
dentro quel rosso smisurato,
no, ancora non lo sai,
fugge l’ultimo anno
giovane e felice

e venne il giorno cupo,
un giorno non come un altro
della vita,
e la spagnara limpida
e compatta
quell’azzurro lieve
come l’aria
scomparve nelle tenebre
oscurata,
e s’oscurarono i cieli
e tutti i campi
anche il verdone perse
il suo colore
e nero lo stridio
nere l’erbe,
nel nero che t’avvolge
e che ti schianta
le tempie fatte cupe
come il respiro

come nella pellicola
che arde e brucia
i fotogrammi tutt’attorno,
mutilata la salvano
le forbici,
in cenere si spengono
le ore che quel giorno
cerchiano, il più cupo

sì, mi restano
la casa e le figure
nella mia macchia persa
la più lontana,
quell’odore dell’acqua,
di muschio e raganella
verde e bagnato,
l’antico scalzo e biondo
che lento s’incammina
verso le nubi
dopo il ricordo cede,
i fotogrammi tutti
sono bruciati,
ma qualche brano resta,
scendi per l’aspra piana
scordi compagni e prati,
e tu e la donna entrate
soli dentro quel mare
vuoto, così remoto
e gli spini dei ricci
nella carne
la corsa no arrestano,
felice

oggi c’è molta luce
nella macchia,
vengono fuori bisce
al primo raggio,
tra le foglie cammino
intorpidito
come quella lumaca
dentro l’erbe
che il ragazzo toglie
da una scatola buia

e ripenso a quel giorno,
un giorno non come un altro
della vita

Luglio 2010




Natale nella casa nuova

con queste mani,
da sempre disabituate
alle faccende,
hai disposto il presepio
piccolo, ma non tanto,
sulla stretta, lunga
cassapanca,
tutto sassi ed erbe,
senza strade e mestieri,
senza gli stagni azzurri
sotto il vetro
o dimore lontane
con i lumi,
qui affondano i pastori
dentro il muschio
e stanno i boscaioli
tra rocce e querce,
lente avanzano donne
con le brocche,
molto, molto più forte
rilucono le stelle
sopra campi remoti
via dalle case
da sempre uomini e piante
e terre e cieli,
pastori coi canestri
e re coi doni,
questa capanna unisce
e rasserena,
dentro le nuove stanze
ei nuovi giorni
oggi sta il padre
insieme con la madre
e a te figlio così
grande e possente,
ma ai giorni della nascita
tornato, dentro
la tua vicenda
fatti eterni

ad altri, remoti
anni, questo muschio
lucente ci riporta,
all’età dei padri,
delle tenere madri
tra gli addobbi azzurri
delle feste,
ad uno ad uno caduti
lungo gli anni,
ora sono ombre
così spesse e vere,
figure dentro il sangue
che trasale
la terra attaccata
sotto il muschio
Jacopo la sbriciola
e dissolve,
nel bel verde apre
squarci e varchi,
ma tu coi sassi
riempi tutti i vuoti,
è più aspro il presepio
ma permane

e quelle rocce fitte
nella panca,
con le sue luci,
a sera,
il pino accende

Dicembre 2012

 
 
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