Una volta, a proposito dei poeti fortemente radicati in un luogo o da esso segnati per sempre, Andrea Zanzotto suggerì di usare la parola matria a designarne l’origine. Questo è il caso di uno dei maggiori poeti del nostro tempo, Umberto Piersanti, nato a Urbino nel 1941 stando all’anagrafe ma alla pari di testimone e insieme di un aedo fedele alle Cesane, l’altopiano a sud della Urbino da cui proviene la sua famiglia e che da sempre costituisce il set della sua stessa poesia.
Lì, fissa in un’eterna istantanea, c’è la casa sul fosso, lo stradino di ghiaia, la famiglia contadina con i suoi personaggi favolosi e di continuo richiamati alla memoria, quali la nonna Fenisa (presenza benefica, una Cerere soccorrevole e sorridente) e viceversa il nonno Madìo, alto sul carro e solenne nella figura, l’uomo che intende la lingua dei boschi e il richiamo delle bestie, colui che è capace di individuare il mitico “sprovinglo” e cioè il diavolo incarnato in un animale domestico.
Firmatario a partire dagli anni Sessanta di una decina di raccolte (già selezionate nell’auto-antologia Campi d’ostinato amore, La nave di Teseo 2020), il suo libro baricentrico che fra l’altro lo rivelò nel 1994 al grande pubblico resta I luoghi persi (Crocetti editore, “Kylix”) che ora torna in libreria con una sezione terminale inedita una densa nota introduttiva di Roberto Galaverni. Se nella quarta di copertina dell’edizione Einaudi ’94, l’autorevole avallo di Carlo Bo rinviava a una ripresa originale delle Georgiche, per parte sua Galaverni sa cogliere la dialettica profonda che alterna tenace fedeltà a quei luoghi primordiali e coscienza al presente di una perdita irreparabile che “induce responsabilità disillusione, rinuncia, patimento, scelta morale”. Scrive infatti il poeta in una clausola: “Tu ascolta questa storia/d’un luogo che fu il mio e che diviene/un po’ più estraneo sempre e doloroso”. Perché il nesso del poeta con la tradizione (Pascoli il suo nume, Bertolucci un costante riferimento), la scelta del più classico endecasillabo e la pienezza del canto non hanno nulla di nostalgico ma semmai introducono il senso di una asciutta e virile malinconia, come si trattasse ogni volta di riandare a una ferita che non sa e non può rimarginarsi.
Qui la fatalità del tempo che passa e lo stillicidio implacabile della memoria si danno come un benefico maleficio, come un necessario gesto di perdizione e nel frattempo di riparazione, infine disegnando il cerchio perfetto che davvero rappresenta la matria di Umberto Piersanti: “io nell’attesa sono come sempre/in giro sui miei colli nella cerchia/e poi vado lontano e qui ritorno”.