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da
L'estate dell'altro millennio:
(...) Tornarono a sedersi, i gallinacci ormai calmi pissicavano
l'erba. Il sole era ancora alto, ma le ombre diventavano più
lunghe e s'era fatto freschino.
«QuanJo tornano i nostri uomini? prego sempre che la
guerra finisce così il giorno dopo sono qua. Tina,
te sposi subito quando Lello torna?»
«Non perdo neanche un giorno, dopo una invecchia e la
vita non è più come prima. Quel po' di bello
che c'è nel matrimonio è i primi tempi.»
S'era levato un filo di vento, s'alzavano le foglie: giù
per terra, le ghiande rotolavano tra l'erba. Tutto d'un colpo
la Maria si scosse, come punta da una vespa.
«Vieni Tina, corri, saliamo sul Monte della Conserva:
oggi è un giorno chiaro come pochi, dicono che in giorni
come questi dal Monte della Conserva qualcuno ha visto fino
dall 'altra parte del mare, fino alla Jugoslavia.»
«E quando hai visto la Jugoslavia?»
«È la terra dove Franco fa il soldato, voglio
vederla.»
La Maria s'era messa a correre come una matta su per il costone.
«Chi guarda i gallinacci se veng so anch'io?»
urlò l'altra che le s'affannava dietro.
«I gallinacci stanno calmi, ormai sono stracchi e poi
da lassù lo vediamo se vanno da qualche parte.»
«Se perdo una sola di queste bestie mio padre mi rompe
tutta!»
«Allora torna dai gallinacci, aspettami giù,
bada anche ai miei.»
La Tina s'era fermata, poi aveva preso a scendere, piano che
non sapeva bene cosa fare e non gli dava gusto restare sola.
Maria saliva svelta senza sentire la stanchezza, come se aveva
bevuto, volava qualche foglia e gli girava intorno. Passò
tra l'erbe alte, i ceppi delle more, lo spino bianco: s'era
graffiata tutta, ma continuava a correre. Il greppo sempre
più ripido sprofondava ormai da tutte le parti; cominciò
ad arrampicarsi con le mani e coi piedi.
«Matta, sei una matta!» gli urlava la Tina da
sotto, «finirai per sfracellarti tutta! la Gina del
Casone per salire nei greppi c'è rimasta secca!»
Maria non la stava neanche a sentire; poi lei per arrampicarsi
non la fregava nessuno, sugli alberi squizzava su più
d'un maschio di quelli svelti.
Era ormai arrivata in cima; un campo, non del tutto liscio,
scendeva lento verso il fosso: pieno d'erba, chiara e precisa,
sembrava pettinata. Proprio dov'era più alto, attaccato
al cielo, avevano messo una croce, in un folto
di spini. Corse fino alla croce, poi si buttò lunga
nell'erba per riprendere fiato. S'alzò quasi subito
e cominciò a guardare intorno. Dalla parte dei monti
giungevi fino non sai dove: Urbino era lì sotto, sembrava
quasi bassa,
la cupola del duomo tutta verde e San Francesco col campanile
volto dalla sua parte. Poi scese con l'occhio sul Carpegna
e di lì ai monti bassi verso la costa. Il mare si vedeva,
non era come il cielo, d'un celeste più forte
come la carta dei presepi. Lei guardava oltre il mare se c'era
la Jugoslavia dove stava Franco. Niente, solo l'acqua. E il
mare è una pozza troppo grande: ma c'era come una striscia
bianca in fondo, e baluginava; forse la
caligine che cresce sopra l'acqua (anche nei fossi e nelle
pozze la puoi vedere), se non è quella è la
Jugoslavia.
Più la guardava, più se ne convinceva, non era
la caligine, era la Jugoslavia.
«Franco» urlò più che poteva, «torna!
facciamo una gran festa quando torni coi cappelletti e il
brodo di gallinaccio!»
E le parole restavano nell'aria, andavano giù piano
per i greppi.
«Vieni giù matta! ti rinchiudono da qualche parte
se ti sentono! a Franco non ci arrivi, puoi star sicura!»
Maria lo sapeva, ma lo chiamava lo stesso, per amore. (...)
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