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da L'albero delle nebbie:

Sulle mura d’adolescenza

segni questa stagione
di vento e acque,
tu violacciocca,
fiore dei dirupi,
delle muraglie ripide
e contorte

fiore della breve stagione
di passaggio,
luminosa come l’adolescenza
col gomito sulle mura
e il vento in faccia,
t’assediano le nubi
ma poi rischiara,
sul bel volto risplendi
che t’è accanto,
in quella primavera remota
della vita

Marzo 2005




Al sole di gennaio

cresce la margherita a branchi fitti
al sole di gennaio
mai così intenso,
il fiore più tenace
e non lo piega il gelo
o la brina che fa bianchi
i campi nel dicembre,
anche la neve folta
non lo schianta,
la margherita attende
tra i suoi petali lunghi
rinserrata
il più pallido raggio
che appena increspi
quella gelida coltre
che l’avvolge,
non ti sorprenda allora
il prato verde
se di bianco avvampa,
ma ti sgomenta il fiore
piccolino, quella punta d’azzurro
lieve come il nome
che al ricordo invita,
solo a marzo vien fuori,
tra l’erbe chiare,
e la malva poi,
anche più tarda,
splende tra foglie secche
e le cartacce
assurda nel gennaio
malato e assurdo

strana stagione,
anche tu Jacopo a vent’anni
pieghi sull’altalena
le lunghe braccia,
gli occhi tuoi
mansueti
che non sanno
il tempo che trascorre,
giorni e dolori

no, non è primavera
e non è inverno
questo limbo tepido
e fumoso
senza il gelo
che stronca erbe e fiori,
senza che dal buio fondo
tornino fuori

ancora balbettavi
appena “mamma”
quando viene la nube,
enorme e scura,
e infradicia le rose
e le insalate,
il piombo dentro i ceppi
e nelle vene,
quella lunga estate
che mai finiva,
il cielo quasi bianco
e plasticato

le nevi d’una volta
alle Cesane
ed io che ci sprofondo
verso il fosso
e mi trascino avanti
con le mani

poi, un brano di terra,
di muschio e d’erba,
e c’era un favagello,
giallo e ostinato,
stava lì luminoso
sopra quel bianco.

Febbraio 2007




Epifania

Non c’è più stata
ì chiara un’acqua così chiara
che scenda lieta e lieve
tra fiori ed erbe,
azzurro il vento
scorre tra giunchiglie,
scompiglia i tuoi neri
capelli, sorella forte
che mi sorreggi
e vuoi che salti
oltre, dall’altra parte,
dov’è il prato di primule
infinite

e radi, così radi
i giorni, e questo
magari il più assoluto,
quando l’aria t’entra
giù nella gola
e ti solleva
sopra il verde e l’azzurro
che d’intorno ti cerchia
e ti ubriaca,
ma senza schianti,
e tu butti la testa
lì tra l’erbe
e sfiori il tulipano
che tra i ceppi arde
e t’arde dentro,
giorno di primavera
senza una macchia,
senza un filo di fumo
che ingombri ‘aria

io ti ricordo Anna
dentro quel giorno,
tra le acque tenere
d’antichi campi,
e la tua gonna bianca,
non so, o celeste,
e tu sei alta,
il passo sicuro,
ed io ti seguo
stretto alla tua mano,
non so più l’anno,
il giorno,
in quale ora
io e te soli
camminavamo là
sotto il Padrone,
quale la nostra casa,
se lassù al Monte,
col grande orto,
o l’altra dell’infanzia
a Santa Chiara,
nel vicolo più largo
e rischiarato

certo la madre c’era
ad aspettarci, e l’Erbe,
il padre forse alla Fornace,
ma io e te soli
nel bianco di marzo
o d’aprile che importa,
noi due soli
in quella primavera
così chiara e perfetta
e luminosa,
e non c’era ritorno,
né il giorno che precede,
quello che segue,
noi due camminavamo
fuori dal tempo.

Aprile 2OO7




Antica estate

forse, sono passate
fitte le stagioni,
era il giorno dopo
quello del ballo
fra i tigli,
al Ragno d’Oro,
noi scendevamo Laura
per lo stradino lungo
tra greppi e dirupi,
oltre il Tufo e il Padione,
dove la conca scende
smisurata verso
gli azzurri monti,
sul confine,
e con l’aria si mischia
il verde folto

e tu passavi svelta
tra le rose,
quelle di macchia
pallide e leggere,
e come nelle fiabe
i tuoi capelli
bisogna districarli
dagli spini

dopo, c’erano ginestre
a cerchi fitti,
la mantide confusa
con gli steli,
strana la sua preghiera,
ferma come uno stecco
la falce attende
l’ape che s’ubriaca
nel giallo fiore,
lontano vola un falco,
s’arresta dentro il vento
come sospeso

e quando siamo entrati
tra pietre diroccate,
sparse tra rossi
rovi e ceppi,
lento si spegne il giorno
sull’erba spagna

scendono rade luci
dal tetto rotto,
le bionde cosce scoprono
che lo sguardo risale,
è lieve la tua mano
sui capelli

c’eravamo solo noi
dentro la terra,
io e te soli,
senza affanni e ricordi,
senza doveri

vieni - m’hai detto –
guarda le lucciole
che scendono a milioni-
e quel canto dei grilli
che mai cessa
e dalle erbe sale
sopra, negli alti rami,
e con l’altro s’incontra,
il più ostinato,
della cicala che la notte
non piega

e nella casa rotta
l’ora è ferma,
il tempo scorre fuori
della conca

giugno 2OO7




I settembrini

madre, è rifiorito
il settembrino, quel cespo
così azzurro e lieve,
l’altro, il più vasto
che tenace ogni giorno
tu curi e accompagni,
quello dal rosso-viola
che rischiara l’aria
tutt’attorno, cerchiato
dalle api e da bisbigli,
no, non lo vedo,
da tempo già sradicato
o rinsecchito e risucchiato
dalla terra, fa vuoto
l’orto, almeno un poco,
che settembre accende
colmo e pacato
come nei tuoi giorni

anche quella siepe
lunghissima d more
che scende verso la Tore,
verso la casa antica,
sarà adesso colma
di frutti neri e gonfi,
quelli che tu afferri
tra gli spini,
senza temere i rovi,
il morso scuro e celato
delle serpi

ma io più non scendo
a quella siepe,
da anni non rivedo
l’antica casa,
il muro ch’è rimasto,
corto e torto

settembre, ora lo guardo
da dietro i vetri,
nell’orto ti rivedo,
il tuo riso riascolto
tra i rovi folti

settembre 2OO7

 
 
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