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il Manifesto 13
marzo 2001:
Il Partigiano Marco
Molti sono i modi di utilizzare la forma-romanzo. Il poeta
Umberto Piersanti ne ha scelto uno (L'estate dell'altro millennio,
Marsilio, pp. 414, £ 35.000)che deduce lo schema del
romenzo di formazione e, insieme, del romanzo storico per
tradurli nei modi di una ballata popolare, scandita per spazi/tempi
della memoria retrocessi a un'età superiore, ritmata
da ampi pannelli in cui versare il suo cromatismo di autore
lirico, e senza elegiaco. Si immaginino due loughi adiacenti
e però antipodi, che contrastino tra loro come possono
contrastare il tesoro secolare della Storia e l'intatta maestà
della Natura: da un lato c'è Urbino, la città-palazzo,
alta nel grigiorosa dei torricini e dell'aquila dei Montefeltro,
incastonata nella geomatria di vicoli e slarghi improvvisi,
colma di opere d'arte, la città di Piero, Raffaello
e di Federico Barocci; dall'altro, un poco più a sud,
sta la catena di altopiani che le fanno da corona e sipario,
le Cesane, dove i calnchi di una pietra liscia e argentea
( la cosiddetta "genga") si alternano a dense macchie
di verdi e cortili asimmetrici, e rare case coloniche di muri
a secco, dislocate oltre il fosso e l'immancabile stradino
di ghiaia.
A Urbino, nell'estate del '39 vive l'ultima stagione di enfant
gaté Marco, studente di lettere che dimora nel calore
protettivo protettivo di una breve cerchia, fra il portico
del Collegio Raffaello (in fondo allo scalone, si trovano
la lapide e il busto del suo poeta preferito, il Pascoli)
e la casa dei conti Albani, dove abita Laura, musa adolescente
e inacessibile. L'educazione sentimentale di Marco è
schermata, refrattaria all'immane conflitto che gli si viene
preparando intorno: "Tutto in Marco rimandava a un senso
di gentilezza e di equilibrio, anche se pervaso d'inquietudine,
anche se sempre insidiato ad un eccesso di sensibilità,
di stimoli e desideri". Ben altra la tempra e la vita
di Franco, figlio di contadini delle Cesane, il cui asciutto
Bildungsroman si compie invece nella pastura, nella caccia,
e in un amore improvviso, manifestato con impaccio e tremore,
per Maria, la ragazza dai capelli biondorossi, silfide agreste
il cui fascino inconsapevole si manifesta nel riserbo, nella
bellezza composta e in un calore che lei prodiga naturalmente.
Qui nel tratto che congiunge città e campagna, che
lega due destini incogniti, Piesanti recupera le vena terrigena
dei libri dei suoi, direttamente scaturiti dall'alveo autobiografico
e dallo stesso, bruciante, pattern ambientale: L'uomo delle
Cesane (Camunia 1994) e I luoghi persi (Einaudi 1994). La
scrittura va veloce, sostenuta dall'intromissione del discorso
indiretto libero, impastata e lavorata come argilla, tattile,
prima che visiva, ricolma di colori, sapori, odori, fino all'appagamento
sensuale. Se infatti Piestanti conosce ad una ad una le pietre
di Urbino, specie nel perimetro del Palazzo Ducale aggetta
su Valbona e il magnifico profilo di San Bernardino, la botanica
delle Cesane ha per lui valore addirittura primordiale. La
pagina ridonda di quercelle, cornioli, pioppi, e di un fiore
amato sopra tuuti gli altri, il "favagello" tenero
e giallissimo, che torna nel romanzo alla pari di una allegoria
e di una fausta premunizione, annunciando la gloria della
primavera dal fondo cupo di febbraio. Marco, lo studente,
e Franco, il contadino,si incontrano ( il primo ufficiale,
il secondo soldato di fanteria) a troppi chilometri da casa
per non sentirne , entrambi, lancinante nostalgia. Oltremare,
i sassi brulli del Montenegro,le camicie nere, i tedeschi,
istascia e cetnici, la caccia ai partigiani jugoslavi vissuta
come un'ineluttabile incombenza, occupano la parte centrale
del testo dove via via matura una parallela presa di coscienza,
davanti alla morte e all'orrore quotidiano. Il disincanto
chiuso nelle parole di Franco vede più lontano della
prplessità che continua a segnare il tenente leterato:
"(...) crepare così, per niente, che lui finora
ha visto solo sassi, e una terra secca dove non viene su bene
niente". Qui l'autore, alle prese con un paesaggio e
una materia meno sua, si avvale di un preciso spoglio delle
fonti, peraltro utilizzate nei dialighi sempre a voce alta
e nei modi semplici, un poco struggenti, dell'epica popolare:
i manifesti e i giornali d'epoca, le dive del cinema, la radio
con le voci di Tito Schipa e Gino Bechi che canta Vieni c'è
una strada nel bosco mentre viene interrotto dal proclama
di Badoglio, i gol di Piola e di Meazza, gli ipocriti bollettini
del regime e i deliri contro la perfida Albione.
Quando, dopo l'8 settembre, Marco e Franco riescono avventurosamente
a tornare, sembra chiudersi il cerchio di una giovinezza in
fretta smaltita da loro solo per essere rimossa in via definitiva.
Il contadino torna alla casa sul fosso, a Maria, ai rari e
trionfali pranzi che scandiscono il ciclo delle stagioni,
al vino atavico e alle tagliatelle col suho di lepre, condivise
nell'intimo della famiglia patriarcale: di lì non se
ne andrà mai più costi quello che costi. Diverso
è il ritorno di Marco, sospeso tra un presente vuole
tuttavia ritrarsi ("era come in esilio, come sospeso:
agli altri spettava di finire il gioco, portare fino in fondo
il mutamento") e l'ambigua seduzione di Urbino, dove
l'amore adesso si accompagna a senso di impotenza e di asfissia
("deserta, assorta e metafisica, avvolta nella stessa
luce che il pittore sconosciuto ha immesso tra i palazzi della
città ideale").
E' proprio Marco, lo studente irresoluto, ad operare quella
scelta che l'altro non sa o non può fare: sale sulle
Cesane e si unisce ai partigiani che combattono a ridosso
della Linea Gotica. Non ha credo ideologico che non sia quello
di una avversione istintiva alla crudeltà e all'ingiustizia.
Marco non porta il fazzoletto rosso degli altri compagni,
presto si defila dai discorsi del commissario politico del
suo gruppo, resta un ufficiale del regio esercito che dà,
di cuore, tutto se stesso alla lotta. Nulla di meno e nulla
di più, semmai, fossero esistiti nell'urbinate (ma
non c'erano affatto) si sarebbe arruolato volentieri tra i
"fazzoletti azzurri", come il Johnny di Fenoglio.
Marco non ha fede ma la sua scelta, priva di aggettivi e di
colorazione politica riscatta paradossalmente la rinuncia
di Franco, che ha preferito il matrimonio con Maria, la protezione
disperata della famiglia e della terra. (Pari al suo amico,
egli incarna i tratti elementari dell'eroismo, gli stessi
cui è vietata la retorica e gli onori del "dopo";
perciò somiglia alla sostanza spoglia di libri oggi
diffamati o cancellati dalla canéa revisionista, l'Agnese
di Renata Viganò, Il voltagabbana di Davide Lajolo,
che gli è consanguineo anche nella passione per il
rigoglio naturale spento dalla vicissitudine storica, o infine
a certe tele di Guttuso sull'occupazione dei feudi, rosse
di aura generosità e sangue garibaldino).
Il romanzo di formazione di Marco si conclude, non a caso,
con due emblemi del rimorso, viatici del definitivo disincanto:
l'esecuzione a freddo da parte dei compagni, di un giovane
ufficiale repubblichino e la cruda visione del suo antico
amore, Laura, rapata a zero e linciata dalla folla. Quando,
la mattina del 9 agosto del '45, legge sul giornale della
Grande Bomba tutto è maturo perchè senta già
morta ogni altra estate, ogni alibi che dia senso e futuro
all'estinta giovinezza. Abbandonata la città, da solo,
sale sulla Cesana alta, a leggere e meditare su una vittoria
dal peso tanto impegnativo che il clamore avvilirebbe. Le
ultime parole che Piersanti fa pronunciare a Marco sono le
stesse, rinverdite da un vecchio libro di scuola, con cui
Leopardi chiude dolorosamente La ginestra. Laggiù,
a fondo valle, c'è Urbino, illesa nella superbia del
suo mito, ma ormai a poche miglia da Hiroschima scalfita per
sempre dalle res durae della storia.
Massimo
Raffaeli
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