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Il canto magnanimo:
(...) RAFFAELI: Dicono i francesi, con un bel proverbio,
che il Faut commencer par le commencement, che appunto bisogna
cominciare dall’inizio. Il tuo inizio sono gli altipiani
delle Cesane, Urbino negli anni della guerra e nell'immediato
dopoguerra…
PIERSANTI: Io ero un bambino di città. Sono nato nella
prima casa costruita fuori dalle mura (prima c’erano state
solo le case dei mutilati di guerra), Villa gloria. Era una
villa costruita da un tale che era stato a Roma e avevo fatto
un po’ di soldi. Lì c’erano i professori
universitari, avvocati… io stavo in un seminterrato e
mio padre faceva l’ortolano nel grande orto della villa
e andava anche a lavorare alla fornace dei Volponi. Però
le mie origini erano nella campagna. Da parte di mia madre venivo
dalla Cesana, non proprio la Cesana alta, ma dalla zona che
scende giù verso Pesaro. Sotto Torre San Tommaso c’era
uno stradino, il più lontano e sperso, che portava alla
casa di mia nonna, un luogo isolatissimo. Mia madre apparteneva
a una famiglia di piccoli possidenti, quasi coltivatori diretti.
Ma lei ci teneva alle sue origini perché i Bacchielli
e dei Piergiovanni come delle nobiltà dei nostri anni.
È stato l’unico poeta dialettale di una certa consistenza
in Urbino.
Io, bambino di città, andavo in estate e in autunno,
ma un po’ in tutte le stagioni, nelle due case di campagna.
In quella della famiglia di mio padre un po’ meno. Questa
, Chè’ Gino, si trovava ai fianchi delle Cesane,
poco sopra i Trasanni. Quell’altra della mia nonna materna,
spersa sotto il fosso, è la casa che ritorna con più
insistenza nella mia opera. Ci andavo da bambino di città
che faceva già letture molto precoci. Ricordo che nella
cucina scura di mio cognato, Eolo Fortini, mi sono letto come
fosse un romanzo di avventure la Gerusalemme liberata,
alternandola con Salgari. E quello che mi divertiva di più
era l’elenco delle genti e degli eroi dell’esercito
persiano. Andavo a cercare tutti i capi… l’Aminta
invece l’ho letto adolescente, verso i quattordici anni.
Io andavo là (e questa campagna per me era bellissima
anche perché poi non lavoravo quasi per niente) a godere
l’aria, le uova il lombetto e, quando facevo qualcosa,
aiutavo il mio cugino Romualdo a parare le pecore. Ci si perdeva
nella piantata alta. Avevo il tempo di contemplare il mondo.
Questo mio modo d’essere era estremamente diverso da quello
dei miei amici. Loro non contemplavano, operavano. Chi metteva
a posto lo stabbio, chi parava le pecore, chi andava a fare
l’erba per i conigli… io stavo lì, giocavo
e osservavo il mondo con tutte quelle conoscenze proprie del
ragazzino intriso di letture. Anche se non ero proprio un secchione…
quello comunque era per me soprattutto il luogo dei racconti.
Ho vissuto, credo, l’ultima grande stagione dell’oralità.
Chi non l'ha vissuta non può capirla fino in fondo. Madìo
è l’emblema più forte di quel tempo. Era
il bisnonno, alto, dagli occhi azzurro-cerulei con una benda,
i capelli biondi e lunghi. A me faceva sempre pensare al Nazzareno
o a un qualche profeta, o a un personaggio favoloso. Lui parlava
di Garibaldi come noi potremmo parlare di Fini o Bertinotti…
diceva: ” Lo sxai che Garibaldi è passat malè
sopra…”. Ma i suoi racconti più strani erano
quelli fantastici. Per esmpio:
_El sé Umbertino sa m’è succes ogg?
_ Sa t’è succes nonn? (io lo chiamavo nonno, mai
bisnonno).
_ Giv giò per la piantata sal birocc. Santa madonna,
ho visto un cagnetto pcin pcin, m’ha fat anca compassion
e l’ho mess dentra al birocc; ogni passo il biroccio fatigava
sempre di più, i bua tiravano ma non ce la facevano,
guardo il cagnetto, ogni momento era più grosso e più
nero e poi dal pelo mandava i lusini e i lampi, allora gli ho
detto:” per el tuo dio, ma tu sei il diavolo!”,
gli ho dato una frustata e lui è volato dietro il monte
della Conserva. (...) |
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