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da Il mito ritrovato - La poesia di Umberto Piersanti di Ezio Settembri:

 
il piacere dei miti che gli uomini bevono con l'aria ma solo ritrovano, imparano a riconoscere nella misura di canto dei poeti.

 
  Marzio Pieri

 

Premessa

Le ragioni di una fedeltà

Ho un ricordo molto nitido della prima volta in cui mi sono imbattuto nella poesia di Umberto Piersanti. Era il 2012, da Mantova avevo raggiunto la provincia di Modena per assistere al Poesia Festival. Piersanti partecipò a un incontro insieme ad Antonella Anedda, leggendo molte poesie sul figlio Jacopo dal libro immediatamente più recente, L'albero delle nebbie. Mi piace ricordare come la scoperta della sua poesia sia avvenuta in un incontro dal vivo. Non tanto per la moda diffusa di dover fare scoperte importanti solo casualmente, tanto più che in letteratura gli incontri migliori si fanno ancora e sempre nell'amata biblioteca. E nemmeno per il fatto che la poesia di Piersanti possa essere apprezzata soprattutto attraverso una performance teatrale ad effetto. Qualche mese fa, ad una premiazione del poeta, Paolo Lagazzi ha fatto notare come l'urbinate, senza accorgersene, parlasse al pubblico in endecasillabi. Credo che sia questa grande naturalezza della voce e l'autenticità della sua vocazione poetica a renderlo riconoscibile e ad imporlo all'ascolto di oggi. Forse, ripeto, non è del tutto indispensabile scoprire e apprezzare la poesia di Piersanti ascoltandola dalla voce del suo autore; ma certo chi volesse familiarizzare con il ritmo del suo verso e la sua dimensione lirica, si troverebbe in una condizione privilegiata. E' pregiudizio diffuso quello per il quale i poeti non saprebbero leggere le proprie poesie. Un pregiudizio tutto fondato su un'idea del laboratorio del poeta come disciplina astratta, che ha bisogno di una rappresentazione sovrapposta che drammatizzi il suo corpo a corpo con la parola. Con il risultato di assistere a performances di attori che offuscano l'essenza della parola poetica con una recitazione a dir poco sopra le righe. Ecco, Piersanti rientra in quelle innumerevoli eccezioni (Ungaretti, Saba, Franco Loi, l'a me caro maceratese Filippo Davoli), in cui non potremmo trovare miglior interprete della poesia che l'autore stesso.    
Mi piace ricordare quell'incontro nel modenese anche perchè la folgorazione riguardo la poesia di Piersanti è avvenuta soprattutto sulle poesie dedicate al figlio Jacopo. A distanza di qualche anno quell'impressione iniziale, sebbene integrata da una visione complessiva dell'opera, non è sostanzialmente mutata: pur riconoscendo, sul piano critico, la grandezza e l'importanza de I luoghi persi, le poesie più vicine alle corde della mia sensibilità, forse le più profonde, restano quelle dedicate al figlio affetto da un disturbo autistico. Lo scrivo anche a discapito di quelle che forse sono le intenzioni complessive del poeta stesso: voglio dire che, visto il ritornare del poeta sui suoi luoghi d'origine, sui suoi paesaggi d'elezione, sul suo infinito repertorio botanico, probabilmente a Piersanti piacerebbe essere ricordato più come il poeta delle Cesane che per altro. Ma si sa che il vento della poesia soffia dove vuole al di là degli intenti volontaristici dell'autore.   
Fatte queste premesse, su alcune delle ragioni e degli orientamenti personali che hanno condotto il mio studio, l'ulteriore esigenza che si è imposta fin da subito, è stata quella di stendere una monografia il più possibile completa e soprattutto di cogliere le connessioni feconde fra l'opera matura e tutta la parte anteriore a I luoghi persi, più o meno colpevolmente ignorata dalla critica.Ne è emerso il quadro di un poeta che dal suo primo libro di versi, La breve stagione (1967), all'ultimo,appena uscito, Campi d'ostinato amore, si è mantenuto fedele a una vocazione, attraverso cinquant'anni, fortemente legata alla tradizione della grande poesia classica. Una fedeltà che non si è mai fatta maniera o accademia, grazie ad un rapporto diretto con la contemporaneità e le sue inquietudini. Che è poi la cifra di una scrittura moderna o, se vogliamo, del rinnovo stesso della classicità del linguaggio poetico.
E' in questa tensione inesausta tra tradizione poetica (che affonda le sue radici in Petrarca e Tasso, come ha scritto in modo illuminante Franco Loi), volontà eternatrice della poesia in un tempo assoluto, e malinconia nella realtà presente, mai totalmente rifutata, che va rintracciata la forza di un discorso di straordinaria coerenza, refrattario alle mode e alle avanguardie che avrebbero potuto influire su un poeta nato nel 1941. Ecco invece imporsi, se non già dalle primissime prove, ma almeno dalla seconda raccolta, Il tempo differente (1974), una delle maggiori personalità di spicco nel panorama italiano, certo il più isolato in quella linea ancorata alla tradizione, che dopo gli strappi vocianti delle avanguardie negli anni Sessanta e Settanta, alla lunga in Italia l'avrà vinta. Tanto da consentire quella straordinaria varietà e qualità di voci poetiche oggi in Italia, per non parlare del fenomeno felicemente anomalo dei  poeti marchigiani, quantomai numerosi e validi, di cui Piersanti è capofila accanto agli altrettanto grandi Francesco Scarabicchi, Eugenio De Signoribus e Gianni D'Elia.
L'idea di una ricognizione sull'opera del «più grande poeta di natura del Secondo Novecento dopo Attilio Bertolucci» (Alessandro Moscè) è partita poi dallo struggimento e la malinconia che è dietro ogni composizione dell'urbinate: mi riferisco al pathos trattenuto, alla tenerezza non sentimentale delle poesie su Jacopo; la nostalgia del mondo dell'infanzia alle Cesane, un mondo perduto e vagheggiato senza nessun rimpianto di tipo ideologico, ma con l'amara coscienza dello scorrere inesorabile del tempo, un'ossessione alla quale Piersanti risponde con la tenace resistenza della poesia. Personalmente mi ha affascinato poter passare dall'inevitabile tentazione di identificare gli scenari campestri di questa poesia con i miei ricordi d'infanzia e le estati nella casa di campagna di Loro Piceno, sulle colline maceratesi, in un paesaggio e un ambiente così simili; la tentazione di riconoscersi in una medesima tavolozza di colori, per poi sentire l'afflato universale che avvolge la casa in fondo al fosso, esattamente come universale è divenuto il Colle e il villaggio cantati da Leopardi, o Casarola e il Cinghio evocati da Bertolucci. E allo stesso modo avvertire sulla mia pelle quanto il mio passato, anche per me che non ho affrontato il passaggio epocale vissuto dal poeta urbinate; quanto le immagini delle mie estati in campagna siano irrimediabilmente perdute, solo evocate dal ricordo, e in Piersanti dalla poesia che quasi magicamente può farle rivivere. Immagini e luoghi che senza la poesia potrebbero scivolarci addosso quasi con indifferenza, ma che la trasfigurazione della memoria e del sentimento rendono mitiche. Un movimento, dal particolare all'universale, di cui credo non viva solo la mia lettura, ma tutta la Weltanschauung di Piersanti, una perenne tensione, profondamente classica, e dunque mai metafisica, ad abbracciare la totalità dell'esistente, partendo da un baricentro ben preciso, la casa in fondo al fosso. Piersanti è stato da subito cosciente che «soltanto chi sa essere del proprio paese...può ambire ad essere universale»1 e che forse, con la religiosità di ogni vera conoscenza, «se non si ama qualcuno fisicamente non si può amare l'umanità intera».2

 

1L. Cavallo, Rosai – Umanità: pittura e segno, Masso delle Fate, Firenze 2000, p. 16.

2 V. Pratolini, Romanzi, vol. II, a cura di F. P. Memmo, Mondadori, Milano 1995, p. 314.

 

 
 
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