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dal
Volume Dopo la poesia. Saggi
sui contemporanei
Fazi Editore, 2002:
Il posto indimenticabile: le Cesane di Piersanti
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Amiam,
ché non ha tregua
con gli anni umana vita, e si dilegua.
Amiam, ché ’l sol si muore e poi rinasce:
a noi sua breve luce
s’asconde, e ’l sonno eterna notte adduce.
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Piersanti ha raccontato più volte come l’Aminta
sia stato per lui il vero libro dell’adolescenza e poi
della giovinezza, fino alle soglie della maturità.
E davvero, conside-rando lo svolgimento del suo lavoro di
poeta dall’esordiale Breve stagione (1967) all’ultimo
I luoghi persi (1994), l’immagine del mondo vitalissimo,
appassionato ma gentile della favo-la boschereccia di Tasso,
che leggenda vuole iniziata proprio tra le colline del territorio
di Urbino, rimane sempre all’orizzonte della sua poesia
come il luogo luminoso, di pienezza e di gioia interamente
terrestri, che con la sua rifrazione ricchissima ne costituisce
il primo nu-trimento e insieme la direzione più certa.
Credo che sia questo il primo elemento da rilevare, forse
addirittura il più importante, perché sottesa
a tutta la vicenda poetica di Piersanti è la tensione
verso un’antropologia a fondamento naturalistico. E
l’Aminta incarnava tutto que-sto in modo probabilmente
inarrivabile: le forme sempreverdi di un mondo ancora pagano
e felice, il vagheggiamento dell’età dell’oro,
la perfezione appena turbata dei quadri pastorali. La motivazione,
il senso stesso della poesia di Piersanti si trova senza dubbio
da queste parti, tanto più che nella definizione del
suo posto indimenticabile convergono subito anche le ra-gioni
in senso profondo autobiografiche: il mondo collinare in cui
prima il ragazzo e poi il giovane poeta s’inoltravano
uscendo dalle mura cittadine, poi l’Appennino centroitaliano,
tra Marche, Montefeltro e Toscana, quindi soprattutto le Cesane
corrusche e un po’ selvagge della discendenza materna,
s’incontrano infatti d’acchito e in modo probabilmente
indistin-guibile con la definizione altissima offerta dalla
letteratura. La poesia in Piersanti si proten-de così
originariamente e per sempre verso un territorio pulsionale
e liberatorio che si con-fonde con la giovinezza nel segno
di una perenne fertilità.
È così che un sistema di relazioni molto fecondo
si definisce prestissimo nell’occhio prensile, rapinoso
di Piersanti, costituendo poi per sempre il quadro di riferimento
dei suoi versi. Già nel primo libro, tra reminiscenze
letterarie anche molto marcate ma con un’intenzione
poetica subito chiara e decisa per sempre (ne fa fede anche
l’introduzione di Gualtiero De Santi, suo sodale e interprete
poi sempre intelligente, dove si mostra una comprensione molto
precoce dei limiti delle operazioni neo-avanguardiste), prende
infatti a delinearsi quel ricco ambito di suggestioni e di
sollecitazioni che nel successivo Il tempo differente (1974),
il libro forse più compiuto di Piersanti fino a I luoghi
persi, appare interamente definito: il modello antropologico
della città rinascimentale, la giovinezza con le sue
scoperte, anzitutto l’amore e l’amicizia, la cerchia
ristretta delle mura, protettiva e insieme limitante, l’isolamento
nella provincia marchigiana, l’impazienza e la curiosità
di pochi amici, la rivendicazione e la fedeltà alle
proprie origini ma insieme la necessità di uscire,
di rompere il tempo della breve stagione, già nel presentimento
di una rottura destinata a durare, quindi gli studi e le prime
letture, a partire da quella assolutamente non pacificante
di Leopardi, fino a quella di Paolo Volponi, il migliore della
generazione precedente, che aveva fatto il gran salto da Urbino,
poi la scoperta della poesia contemporanea, ma anche l’avvicinamento
alla politica e infine il richiamo, l’attrazione o l’alternativa
dei boschi, la fuga catartica sulle colline, l’incontro
con lo sfavillio del mondo della natura, lo sprofondamento
riparatore nelle sue pieghe più ombrose e nascoste.
Nel suo secondo libro Piersanti si riferisce a quest’ultimo
appunto come al tempo differente; il tempo, ma anche il luogo,
del mito, che via via appare però più lontano,
d’improbabile accesso, eppure al contempo sempre più
necessario e irrinunciabile, e come tale rivendicato e difeso
strenuamente, prima con marcate implicazioni storico-politiche
e civili, poi, sempre più sensibilmente, nell’ambito
di una ora angosciata ora più ferma riflessione esistenziale.
È comunque sempre qui, all’ombra del cerchio
chiuso di queste colline, inevitabilmente, che il poeta cerca
qualcosa di non diverso dalla propria misura. E credo che
sia appunto que-sto il primo dato da tenere per fermo: nel
rapporto di Piersanti con i suoi luoghi è in gioco
una questione d’identità, anche come una ricerca
di consistenza resa tanto più necessaria da una densità
psichica fortemente timorosa, attraversata da paure e ossessioni
mai del tutto al-lontanate (e già il Tasso della canzone
al Metauro: «fugace peregrino / a queste tue cortesi
amiche sponde / per sicurezza vengo e per riposo»);
prima fra tutte quella della perdita di un centro, di una
radice, che progressivamente verrà identificata con
l’antica casa di famiglia sulle Cesane. È per
il poeta il richiamo, con valore anche protettivo, della sua
situazione ti-po, della sua probabilmente unica invariante.
Fin dall’inizio l’interesse che porta Piersanti
verso il luogo-natura non si svolge infatti nei termini della
polemica neo-capitalistica di un Pasolini o di un Volponi
(solo qualche traccia nei primi due libri, poi più
nulla); al contrario sono forti i rimandi al Pavese di Lavorare
stanca, di Feria d’agosto e della Luna e i falò,
che a questa altezza è senza dubbio l’autore
più presente: il mito, la preferenza per il verso lun-go,
i viaggi e il ritorno sui luoghi, il cittadino che conosce
la campagna arrivandovi dall’esterno, cioè anche
con l’occhio della cultura (ma più marcatamente
in Pavese che non in Piersanti, che si definisce come un «contadino
incorreggibile»), l’Appennino marchigiano che
vale un po’ come le Langhe, dove spesso è il
presentimento del mare dietro alla cresta delle colline (con
la differenza importante che mentre in Pavese la donna è
esclusa, è tabù, in quanto interrompe la possibilità
del riconoscimento mitico, in Piersanti invece è quasi
sempre presente e vi rientra perfettamente). Ma si avverte
anche l’influenza di certa poesia d’area appenninica,
che mette insieme non solo Pascoli (davvero fondamentale),
il Luzi fi-gurativamente più concreto della stagione
centrale, tra Primizie del deserto e Dal fondo delle campagne
(ma anche la lettura dell’ermetismo deve esse stata
importante, anzitutto per il sentimento di una certa altezza
o nobiltà della dizione poetica), e il Volponi poeta
(rispetto al quale il verso di Piersanti è comunque
più mosso e variegato), ma anche qualcosa del Carducci
maremmano, il poeta della malinconia virile e delle «motivazioni
oscure», secondo la definizione brillante di Luigi Baldacci,
come pure dell’invettiva politica e delle faide.
Un secondo punto anch’esso decisivo è che non
si dà mai in questa poesia una mite revivi-scenza arcadica,
il rischio vero della pacificazione idillica e consolatoria.
E questo anzitutto perché l’avvicinamento di
Piersanti al luogo è sempre un movimento ascensionale,
di natura fisica ma anche spirituale; una concitazione che
è indistintamente emotiva, conoscitiva e morale. Una
sorta di fibrillazione cardiaca, di persino violenta espansione
sensoriale accom-pagna l’ascesa ai siti meravigliosi
e fedeli del tempo differente, che è dunque fondamental-mente
attiva, energica, tutta tesa ad un acquisto. Si tratta di
un ribollire del sangue, di una brama insoddisfatta, di una
passionalità affamata e concupiscente, ricca di aspettative
(le colline e i boschi, come detto, sono anche i luoghi dell’incontro
con la donna, del vigore fi-sico e sessuale, degli atti amorosi
e di fecondazione). Ma su questo primo dato temperamen-tale
non aggirabile e capace di per se stesso di compromettere
ogni eventuale staticità con-templativa, agiscono in
Piersanti una precisa chiarezza intenzionale, la determinazione
di un pensiero fortemente consapevole, una motivazione etica,
che rappresentano il rovescio vo-lontaristico e razionale
della sua poesia.
L’Appennino e le Cesane di Piersanti appaiono come uno
scenario sincretico in cui agi-scono spinte diverse e variamente
compenetrate, spesso contraddittorie, per cui sul ceppo in-trecciato
della tradizione pagana e cristiana entrano con forza, soprattutto
in Passaggio di sequenza (1986) e nei Luoghi persi, un immaginario
di tipo gotico ed alcuni elementi di una mitologia di derivazione
nordica (subentrando, anche se mai interamente, alla sensualità
mediterranea degli amati poeti spagnoli, e anche di Neruda,
con la loro sensualità e densità passionale;
ma possono essere state importanti anche certe movenze lievemente
romanze-sche e favolose del grande Machado). Allo stesso modo,
sopra un’educazione contadina di tipo misterico-cristiano
e su di un assetto emotivo portato anche oscuramente agli
accosta-menti analogici, si innesta con molta decisione una
nitida vocazione illuminista che si scon-tra con i timori
culturalistici, con il senso di colpa e con le insidie dell’irrazionale
(basta ri-farsi alla vicenda insinuante della biscia-rettile
di una delle poesie migliori come appunto La biscia dei Luoghi
persi: «quando mi stendo in terra / a riposare / viene
allora la serpe, sale sul masso / diventa una persona, morta
come / le anime che vedi dentro il bosco»). Da que-sto
punto di vista ciò che inquieta Piersanti è
proprio l’allegorizzazione magica della natura. Il numinoso
e il trascendente, il rimando metafisico entrano controvoglia
in questo poeta ch’è un laico netto, e che alla
fine sceglie sempre la terra, la pura corporeità. Ma
qui è ne-cessario essere chiari, perché si tratta
di un punto importante: la tensione e la fede razionale in
Piersanti sono infatti qualcosa di assolutamente diverso dal
razionalismo astratto, perché mirano comunque alla
salvaguardia delle prerogative dell’immaginazione e
delle potenziali-tà fantastiche. Si tratta dunque di
una percezione dello spessore della realtà terrestre
molto lontana dalla mera volgarità di un materialismo
immiserito.
Proprio per questo la perfezione di una totale compresenza
può darsi soltanto là dove non si diano devianze
metafisiche, cioè nel sogno di un rapporto diretto
con la natura, nella for-ma del corpo di una donna o nel contatto
che il pastore, il pastore-poeta già teocriteo e virgi-liano,
ha con l’erba o con le piante. Per amare la natura Piersanti
non ha bisogno di antro-pomorfizzarla, ma semmai di sentirla
nella sua nuda presenza; solo lì ci può essere
un’adesione completa da parte del poeta. Piersanti si
nutre della terra, un po’ come la figura mitica di Anteo,
il gigante figlio di Nettuno e della Terra, che appunto dalla
terra derivava intera la sua forza e la sua invincibilità;
tant’è che Ercole per poterlo sconfiggere fu
costretto a tenerlo sollevato dal suolo, privandolo così
del suo sostentamento. È dall’amore per la di-mensione
terrena che Piersanti muove ogni volta. E giustamente Carlo
Bo ha parlato di un poeta «impastato di vita»
e che insieme «mira alla vita»; il che rimanda
a una poesia creatu-rale, e così all’eros e alla
tensione del desiderio, alla corporeità, ma insieme,
necessariamen-te, al cruccio per una totalità vitale
che non è mai dato di cogliere per intero e che comunque
egli sa che è destino dover lasciare. In tutta la poesia
di Piersanti, e tanto più nei momenti di maggiore esultanza,
scorre un lento fiume di malinconia, qualcosa di grave e di
cupo, di i-namovibile, che nella fase centrale della sua opera
appare assai tormentato e difficilmente arginabile, ma che
successivamente diventa più composto, approdando infine
a una nuova fortezza. Il tormento più profondo sta
allora per lui non tanto nel risucchio dell’irrazionale,
quanto nel sentimento dell’estromissione dal luogo dell’amore
e nella percezione acutissima della temporalità come
un essere sottratti alla pienezza delle cose. La sua ricchezza
poetica, i suoi toni e colori più persuasivi, dove
la gioia è subito trafitta dagli spasmi per il dolore
dell’abbandono, derivano anzitutto da questo ora violento
ora più dolce attrito tra ritorno e fuga, tra possesso
e privazione. Come ha visto molto bene Emanuele Trevi, nelle
Cesane di Piersanti si rinnova la stessa «legge fatale
che assegna ad ogni Arcadia un simulacro, nasco-sto ma visibile,
della caducità e della sconfitta». Fin dalla
sua prima definizione nel Tempo differente, il posto indimenticabile
appare un possesso mai acquisito, ma attraversato da in-stabilità,
da lacerazioni e da turbamenti. L’ossessione della perdita,
dapprima come esclu-sione dalla giovinezza e dai suoi luoghi,
è per questo poeta qualcosa di originario. Scrive per
esempio in Questa svolta improvvisa:
Più
non si darà il tempo della fuga
non vi saranno ancora i giorni d’abbandono
e l’adolescenza tenace, incanutita
oltre i lunghi anni e avversi.
Ora si sanno
bacati
di tempo, riflessioni, paura
gli amori brevi del mito
gli dei sono morti a questa
prima, feroce svolta del tragitto.
Il tempo viene
sentito come rischio di allontanamento e di estromissione
dal bene. Ed è fa-cile comprendere come le incrinature
stiano anche dalla parte del poeta stesso e non soltanto
da quella del luogo e del tempo edenico, con cui egli si
ostina a salvaguardare una continuità che per molti
versi risulta molto presto indifendibile: «Un esorcismo,
l’ultimo, fiaccato / or-mai dal sopravvento del tempo
/ della paura, il limite d’ombra / l’ululato
di inquieti spiriti notturni» (A Sonia). Il timore
dell’abbandono, ma il termine più esatto è
del poeta stesso: la «paura»; quindi la percezione
esasperata dell’invecchiamento, dell’esistenza
come un cam-mino verso la solitudine, fanno sì che
le svolte della vita, l’uscita dal «cerchio»
meraviglioso del mito e più in generale il futuro
vengano sentiti negativamente. Così, se nel suo secondo
libro Piersanti raggiunge la consapevolezza del valore mitopoietico
del proprio riferimento espressivo, è vero che nelle
raccolte centrali, L’urlo della mente (1977), ch’è
non a caso la sua più debole, e Nascere nel ’40,
uscita nel 1981, il segno di questo tormento affiora talora
con violenza, come per un sormontare di qualcosa di febbricitante,
di una concitazione ner-vosa che rimane incomposta.
Anche Pascoli, così importante per Piersanti, specie
nelle ultime raccolte, conosceva bene questa paura: gli
spasmi della dispersione, la percezione quasi tattile di
una vita sempre pronta ad offendere, la convivenza non tanto
con gli abissi interiori, quanto con qualcosa di meno sublime
ma di più sottile e insidioso, come il demone di
un’insicurezza diffusa dap-pertutto, nella mente,
nei nervi, nel respiro, in ogni tratto del giorno. Ma con
una differenza molto grande: che se Pascoli proiettava tutto
questo nella sonorità inquietante del verso e nelle
sue figure, in una musica insinuante e ambivalente, perfino
equivoca, così da slabbrare il quadro della rappresentazione
fino a renderne incerta, sfuggente e alla fine indecidibile
la collocazione esatta, in Piersanti al contrario il procedimento
della scrittura mira a una chiari-ficazione, a un discernimento,
a una definizione salda. In Pascoli tutto tende a scivolare
all’indietro, come se il paesaggio e insieme la lingua
della poesia venissero risucchiati verso qualcosa di pregresso
che appare ora dolce e suadente ora invece infido, sinistro.
Piersanti si muove invece verso la claritas, cioè
verso la luce della ragione, la consapevolezza, l’evidenza
sia sonora che d’immagine. Si tratta fondamentalmente
di un movimento di natu-ra, e di moralità, classica:
la scrittura o se si vuole la poesia come scelta, come decisione
di essere in un certo modo. La direzione espressiva è
infatti tutta in avanzamento, cerca nuovi territori, soprattutto
una nuova sicurezza. Invece di tirare tutto quanto verso
se stesso, il poe-ta tende ad appoggiarsi alla plasticità
della dimensione esterna, a trovare un approdo nella visibilità
delle cose, anche nei loro aspetti più impalpabili
o viceversa più brumosi e ricchi di suggestione.
L’escursione della poesia avviene sempre verso l’esterno.
Così il suo incon-tro con la natura e più
in generale con la presenza aperta delle cose viventi è
investito anche di una responsabilità stabilizzante
e comunque appare di per se stesso un bene. Il verso di
Piersanti non tende mai all’ambiguo, allo sfumato,
all’allusivo, alle velature oniriche, all’ineffabile,
quanto invece, anche nella visionarietà del ricordo,
alla finitezza e al rilievo completo dell’immagine.
Tanto più nei Luoghi persi c’è l’aspirazione
a qualcosa di definito e di definitivo, a una rappresentazione
chiaramente distinta. Si prenda ad esempio la prima strofa
dell’Attesa:
fino a dicembre
resta il ciclamino
sotto le querce gialle e il pungitopo
in questa antica selva dove siamo
non la raggiunge il fumo delle case
oltre il cerchio perfetto che ci serra
scendono i solchi, gli orti e le verdure
resta – t’ho detto – ancora qui, tra i
rami
guarda nel tronco rotto l’acqua scura
lago con i suoi legni andati a fondo
ora che le tempeste son cessate
quieto riluce nella selva intatta
ah! non scendere più nelle radure
e attendere poi quieti anche la sera
Nella scansione
endecasillabica, nell’unità delle immagini
resa più netta dall’assenza di enjambements
(in genere poco frequenti nei Luoghi persi, come per contenere
la già sostenu-ta intensificazione delle sequenze
descrittive o memoriali), è possibile riscontrare
subito come tutto, anche là dove maggiori sono il
carico coloristico o la mobilità atmosferica, pos-sieda
una perspicuità davvero notevole. Si direbbe che
per questo poeta il raggiungimento più importante,
l’autentico termine della sua poesia, risieda appunto
nella capacità di aggan-ciare la propria vicenda
alla evidenza irrefutabile della dimensione esterna e di
conferirle in tal modo una stabilità che non viene
comunque mai del tutto raggiunta. Il Piersanti migliore
è proprio questo: la pronuncia è decisa, sicura,
le figure e le immagini hanno pieno risalto, ma come portate,
proprio per la necessità di cui si diceva, un poco
di là da se stesse, come sostenute da una lieve solennità
evocativa: lo sguardo innamorato delle cose innerva la vi-sione
di qualcosa di giovane e verde, di sorgivo, ma sempre con
un residuo d’ansia inappa-gata, di estasi mai pienamente
goduta, tale da non consentire alcun indugio.
Va poi sottolineato come fin dall’inizio Piersanti
non abbia temuto di essere fino in fondo se stesso, battendo,
alla lettera, la diversa e impopolare strada del bosco in
anni a quella davvero poco favorevoli. Rispetto alla fissità
del pensiero ideologico il riferimento al tempo differente
in un primo tempo ha significato anzitutto l’affermazione
del diritto alla propria differenza individuale di contro
ad ogni pretesa di uniformità; e ciò tanto
più legittimamente in quanto il mito in Piersanti
nasce e fonda il suo significato soltanto a partire dall’impegno
e dalla responsabilità civile, ma assunti da una
posizione fin da subito radicalmente, perfino violentemente
anti-ideologica. Sia Il tempo differente, che Nascere nel
’40, che la parte ini-ziale di Passaggio di sequenza
sono libri di forte caratura storico-politica; con la differenza
che se nel primo, dunque fino alla metà degli anni
Settanta, la via della Natura rimanda a una possibilità
di integrazione rispetto alla dimensione civile, in seguito,
con lo scadimento del Movimento nella violenza e nel terrorismo,
fino all’impraticabilità degli scenari politici
progressivi («noi che sognammo un mondo più
gentile / persi com’eravamo nella lotta / è
tornata a morire la pietà», sono versi dell’ultima
poesia di Nascere nel ’40), il riferimento alle potenzialità
naturalistiche e antropologiche del luogo assume un più
preciso significato di alterità e di opposizione,
anche quando esso sembra offrire garanzie di riparo sempre
mi-nori. Nella seconda parte di Nascere nel ’40, scritta
tra il 1977 e la metà del 1980, il risenti-mento
e la critica sociale e politica sono continui ed hanno per
oggetto lo schematismo ideo-logico, le mitografie irrazionalistiche,
la semplificazione degli slogan e dei luoghi comuni, l’integralismo
aprioristico delle astrazioni, e insomma i numerosi falsi
miti (appunto) che di quella stessa degradazione hanno rappresentato
il terreno fertile e largamente connivente.
È costante nei dati sia temperamentali che di pensiero
di questo poeta un elemento di ri-volta, un non stare al
gioco già prefissato e più prevedibile, un’originalità
che viene rivendi-cata con fierezza e nel suo periodo centrale
con un’ostentazione a volte fin troppo esplicita («Esigo
il mio diritto d’eresia / la sacra libertà
dell’inutile / dell’immediato del contingente
/ del provvisorio dell’individuale»). In tal
senso, cioè nell’eccesso di giustificazioni,
nell’insistenza sulla diversità e sulla legittimità
delle proprie posizioni, nell’atteggiamento dimostrativo
e volontaristico, talvolta nell’acredine, nei toni
risentiti e nella rigidità dello sguardo che ne poteva
derivare, anche lui, e proprio a partire da convincimenti
sostanzial-mente giusti, ha pagato qualcosa per difendersi
dal depistamento fin troppo diffuso di anni non molto felici
per la giovane poesia italiana. Ma era forse qualcosa di
dovuto e comunque di non limitabile al solo ambito poetico.
Ricordo comunque che Massimo Raffaeli ha parlato di un poeta
che «ha rigettato ogni credo che non fosse quello
della libera commensalità tra uomo e uomo, con la
donna, il paesaggio, i segni della storia». Per cui
va detto che si è trat-tato per Piersanti di condividere
la stessa difficile esistenza che la mentalità e
la cultura della ragione laica hanno quasi sempre incontrato
nella società italiana; come pure della distanza
dai chierici di qualsiasi schieramento e dell’ostilità
che da tante parti ne è derivata: il laico senza
ideologia, ma con idee e ideali molto forti, col senso della
complessità e della proble-maticità delle
cose, ma insieme pienamente responsabile e appassionato.
Nascere nel ’40 è una raccolta segnata da un
trauma personale a cui viene fatto riferimento più
volte e coincidente, come detto, con la fine delle speranze
ideologico-politiche e con l’entrata nell’irrazionalismo
del presente. E anche se rispetto al precedente Urlo della
mente i sintomi di una ripresa poetica sono ben visibili,
molti elementi, a partire dalla schietta rievocazione dell’infanzia
urbinate che occupa la prima parte (con un assieparsi fitto
di ricordi e di nomi che rimanda a procedure di tipo neorealistico,
rispetto a cui è anche possibile valutare quale scarto
qualitativo si dia poi nell’invenzione memoriale dei
Luoghi persi), sono da riportare a una volontà di
accentramento biografico e di radicamento e in sostanza
a un oltranzismo protettivo senza dubbio legati alla profondità
dell’insicurezza psicologica. Anche il verso breve,
fortemente sillabato, sembra obbedire alla stessa ricerca
di consistenza. È come se la necessità difensiva
e l’indignazione politica impedissero al poeta quel
pieno, libero approfondimento reciproco della dimensione
esterna e della conoscenza interiore che costituisce invece
il punto di forza dei libri successivi. Soltanto nella parte
conclusiva ritorna una maggiore fermezza, di nuovo in linea
con il respiro più ampio che apparteneva al Tempo
differente:
con te estranea
al tempo che rammento
ripasso la vicenda
schianto gli arbusti nella macchia
guardo nel dopostoria di questi anni
il frutto lungo dello spino bianco
La raccolta
si chiude (siamo nel 1980) con la definizione ormai compiuta
dell’assetto che sarà della poesia di Piersanti
lungo tutti gli anni Ottanta: estraneità rispetto
alle vicende di un presente non più partecipabile
(«in due scappavamo dalla storia»; e si tratta
di un elemen-to comune ad almeno due generazioni di poeti,
tanto più dopo il discrimine del ’77), ma in-sieme,
proprio quando il significato di compensazione del luogo
diventa ultimativo, la pre-monizione di un incrinarsi profondo
delle ipoteche protettive del «verde giardino».
È infatti l’identità incertissima di
un sopravvissuto, sono le inquietudini esistenziali che
in varia mi-sura avevano sempre percorso questa poesia,
a venire approfondite in Passaggio di sequen-za, nell’esasperarsi
della percezione di quel «maledetto tempo» che
allontana dalla giovinez-za e che passa «perfino alle
cesane»: il rammarico per l’invecchiamento («miei
quarant’anni messi di traverso / che un eros ostinato
affatica»), l’angoscia per la temporalità
come con-sumazione («questo tempo che passa a cui
non posso / altro che opporre gli attimi del mi-to»),
l’impossibilità di prolungare la stagione felice
(«avrei voluto / la mia vicenda eterna»), la
consapevolezza «d’essere sempre più estraneo
/ a questo luogo / ch’è stato solo mio a se-dici
anni», l’immagine di un uomo che «ostinato
/ arranca dietro il tempo differente», in una fedeltà
attardata e solitaria, orgogliosa, anche se turbata da una
ferita mai del tutto superata («solo rimane l’ombra
che mi colse / spessa anche nell’ora ch’è
più chiara / e questa età di mezzo che procede»).
Ma Passaggio di sequenza è un libro di grande esuberanza
vitale e, per così dire, giocato in attacco. Piersanti
per la prima volta non ha più bisogno di legittimare
il proprio mondo poetico, ma vi si diffonde con sicurezza,
anche con esultanza, nel libero attraversamento di perdite
e di acquisti. L’ascesa alle colline è alimentata
da una volontà di apertura e di accre-scimento, da
un desiderio vorace, da una continua accensione fisica ed
erotica. Il rovescio del pensiero malinconico è infatti
la contemplazione attiva dello spettacolo visibile della
na-tura, sia nel presente che nei sempre più frequenti
rimandi memoriali. Soltanto a questo pun-to si può
parlare di un riferimento totale alla Natura: mentre nelle
raccolte precedenti si trat-tava soprattutto di un paesaggio
immobile di orti, di antiche pievi e conventi, di eremi
e di rocche, da contrapporre alla dispersione del mondo
esterno, ora, nelle sovrapposizioni della memoria che attraversano
il presente, sommuovendolo sia per amplificazione che per
dimi-nuzione, l’attenzione è tutta al tempo
delle sorprese vitali, dello spegnersi e del germogliare,
del fluire in piena della vita. Passaggio di sequenza rappresenta
la raccolta di maggiore eu-foria creaturale di Piersanti,
che ora dispiega interamente la sua passione naturalistica
(e così quella precisione terminologica che vale
un po’ come l’anima pascoliana della sua lingua
poetica) e insieme la propria vocazione georgica, come poi
ha visto bene ancora Bo in rela-zione ai Luoghi persi, cioè
legata anche alla dimensione antropologica e culturale dell’universo
contadino, e per quel tramite, va infine aggiunto, all’infanzia.
Tutto è scorri-mento e attività, a partire
dalla pasta ricchissima delle serie endecasillabiche, sia
dal punto di vista coloristico che sonoro, fino alla frequenza
davvero altissima delle forme verbali. Già nel titolo
stesso del libro e di numerosi componimenti, e con un preciso
significato stilistico e strutturale, vi è un richiamo
esplicito al motivo del trascorrere, con forti implicazioni
ci-nematografiche, in particolare con le tecniche del flash-back
e ancor più del piano sequenza, che rimandano inevitabilmente
anche alla contemporanea esperienza di composizione filmi-ca
di Piersanti. Si tratta di un vedere estremamente fisico,
sempre puntualmente determinato e mai soddisfatto, pur nel
rampollare delle scoperte e delle accensioni cromatiche;
di un procedere metonimico dello sguardo, con rapidità
e per accumulo, con un dinamismo nei passaggi e con un vigore
percettivo che allontana da qualsiasi approdo di tipo impressioni-stico.
Qui Piersanti scrive con una euforia dimostrativa tale da
sfondare in una specie di elo-quenza elegiaca. Ed esiste
una correlazione profonda tra la percezione del rigoglioso
movi-mento del paesaggio fisico e quel sentimento della
fugacità del tempo a livello biografico di cui si
diceva più sopra: lo sguardo sulle stagioni di passaggio
slitta di continuo nella consa-pevolezza dell’avvicendamento
delle età della vita, negli sdoppiamenti o nelle
voragini tra l’«ora» e l’«allora»
che segnano i due tempi su cui sono scandite la maggioranza
di queste poesie.
Si può dire allora che la novità dei Luoghi
persi consista nella sostituzione di questo vede-re fisico
estremamente determinato con una modalità evocativa
più visionaria eppure più certa. Piersanti
non sale più al luogo per protrarre la continuità
con la giovinezza; allo stesso modo si attenuano l’impeto
agonistico, il vitalismo salutifero, le rivendicazioni della
stagio-ne precedente. Anche nella sezione iniziale, Per
tempi e luoghi, che pure è ancora vicina ai modi
di Passaggio di sequenza, da ogni parte arrivano segnali
che qualcosa si è spezzato, che la continuità
con il passato è andata infranta. Per molti versi
sembra che a tale riguardo non ci sia più nulla da
difendere o da dimostrare e che il poeta sia pronto per
una lettura di-versa del proprio destino. La tarda poesia
di Piersanti, la sua differita, difficile maturità,
na-sce sul deserto, nella spoliazione («deserte sono
adesso le cesane / cessano le presenze o vanno altrove»);
e la poetica memoriale non si amplifica per aggirare questa
acquisizione ma per renderne infine ragione: la perdita
non è più un fatto accidentale, un tradimento
improv-viso dell’esistenza, una stagione della vita,
ma qualcosa di essenziale, di originario. E in tal senso
mi pare che la definizione più giusta riguardo ai
Luoghi persi sia stata avanzata da Giovanni Tesio, quando
ha indicato «la vera radice del libro» nella
«nuova coscienza della morte, alla quale non si può
sfuggire, e che nessun eros può eludere, perché
ne costituisce, anzi, l’annuncio più funesto».
Come un fantasma che si aggiri sulla cerchia ormai gelida
dei suoi colli, Piersanti si volge all’indietro, chinandosi
sul luogo perduto per interrogarlo e trovare le ragioni
della sua sto-ria, come fosse una costellazione da cui derivare
il proprio oroscopo. Infatti non è più que-stione
della giovinezza ma più radicalmente dell’infanzia:
è allora la «Cesana sconfinata» del ricordo,
là dove si trovano la «casa in fondo al fosso»
e la famiglia, le figure della madre e soprattutto della
nonna Fenisa, autentico lare domestico e responsivo; è
questo luogo ori-ginario che, apparso come una folgorazione
in una poesia di Nascere nel ’40 («Poi vidi
/ la casa vecchia / di mia madre, degli altri / della mia
razza») e affiorato più volte nel corso di
Passaggio di sequenza quale indizio di una totalità
ormai lontana, nei Luoghi persi si pone infine come la cifra
stessa di un destino di sradicamento e solitudine. La necessità
poetica molto più che elegiaca a questo punto è
conoscitiva. Piersanti considera la propria vicissitu-dine
come già compiuta, consumata in un certo modo, e
cerca di illuminarla nelle radici, nelle scelte e negli
accadimenti che ne costituiscono il fondamento. Ed è
un fatto importan-te, perché il punto di vista e
il tono delle poesie cambiano sensibilmente:
lascia l’orto,
le cose e s’incammina
giunge che l’aria imbruna alle foreste
di spini immense, salgono il costone
lì non separa il tempo notte da giorno
scura c’entra la nebbia e vi ristagna
gocciola dagli sterpi l’acqua nera
lunghissimo è il tragitto ma poi arriva
alle falde del monte piene d’erbe
cessa il verde più in alto mentre sale
resta la genga, così bianca che abbaglia
ora il cielo
che tocca è spesso vetro
lieve traspare l’ombra quando cammina
pendono fitti gli astri come ciliegie
quando maggio le sparge per i rami
sali tre passi ancora, vieni da noi
– lo lusinga il folletto coi sonagli –
qui la pioggia non batte, si ferma il tempo
e la morte s’è persa che fuggivi
è stato il suo ribrezzo che ti porta
Sono due strofe della Montagna di genga. Lo sguardo raggiunge
a questo punto la massi-ma estensione e capacità
comprensiva, in quanto vi si narra una storia di formazione,
esem-plare e definitiva, alla vita come temporalità
dispersiva, come incontro con la diversità, co-me
allontanamento dalla casa nel fosso: «viveva ormai
nel tempo / sapeva come / il risveglio era fuori della conca».
Spesso non si trova più il poeta che parla in prima
persona, ma la fi-gura autobiografica protagonista è
quasi sempre un «lui»; la voce del racconto
procede senza corrosioni e incertezze, con una storia in
cui il favoloso coincide con l’indubitabile, come
se fosse stata ritrovata incisa sul tronco di un albero
del bosco vicino alla casa (per cui la voce poetica potrebbe
anche essere quella della nonna o dei mani domestici: «solo
per la Fenisa l’acqua disegna / le storie della gente»).
Più ancora che di racconti, si tratta allora di vicen-de-leggende
(e Vicende è appunto il titolo dell’ultima
e più alta sezione). Nei Luoghi persi viene così
messo a frutto anche quanto di sperimentale e di tentato
si trovava in Passaggio di sequenza: certi snodi bruschi
del discorso, certe slogature e violazioni logico-sintattiche,
le procedure di coordinazione e le ellissi (quest’ultime
alla base anche dei romanzi, L’uomo delle Cesane e
L’estate dell’altro millennio), la minuscola
iniziale, l’assenza di punteggiatu-ra, che nascevano
come fedeltà ad una musica del paesaggio oltre che
come liberamente mimetiche della parlata dialettale contadina
e del suo universo di narrazione orale, diventa-no ora indistinguibili
dagli scarti e dai raccordi della visione, dalla sua cadenza
epica, insie-me imprevedibile ed elegante, con fedeltà
assoluta alle folgorazioni, al sormontare delle premure
essenziali (allo stesso modo non si può nemmeno parlare
in senso proprio di descri-zioni, ma di presenze certe,
date come per sempre, non troppo diversamente da quanto
acca-de nell’universo narrativo delle fiabe). A questo
punto Piersanti pare trovarsi nel momento della massima
fecondità creativa e immaginifica della sua parabola
poetica, della maggiore padronanza dei propri temi e materiali,
così da moltiplicare la consistenza e lo spessore
del proprio territorio poetico, fino a portarlo come al
di là di se stesso; che è di per se stesso
un risultato importante. Ricordo allora Josif Brodskij,
là dove dice che «l’atto di conferire
a un luogo lo status di realtà lirica comporta più
immaginazione e più generosità che non l’atto
di scoprire o sfruttare qualcosa che era già creato».
Come La montagna di genga, anche le altre poesie di Vicende
sono parabole di iniziazione alla perdita e all’esilio;
apologhi che dicono di un destino sbagliato, di orfanità,
e di una vita che non potrà essere, e che non è
stata, quella che si voleva. È quanto si apprende,
ad esem-pio, dalla conclusione dell’evocazione della
madre (nell’attacco dolcissimo di questa ch’è
una delle migliori poesie di Piersanti: «madre ch’eri
fra tutte la più gentile...») e della fami-glia
in Nel tempo che precede: «prima che nascessi furono
insieme / stavano tutti là presso l’aiuola
/ a pescare castagne nel caldaro / ora mancano tutti, manca
una casa / solo prima di nascere l’ho avuta»;
oppure dall’incontro con la fata e dalla sua amara
premonizione in Vi-cenda: «lasci la casa dolce nel
mattino / l’unica che vedo ti è concessa /
e tu la cerchi un giorno inutilmente»; o anche dal
confronto con la «serpe nera» nella Biscia:
«ma chi ha per-so la fonte / l’acqua che sola
/ impedisce alla biscia di tornare / è meglio che
s’abitui alla presenza».
L’esclusione dalla casa: anche qui il rimando a Pascoli
è inevitabile. «Troppo importante è
sapere se il cancello con la mimosa è una patria
o una perversione» – si era chiesto Cesare Garboli,
nel suo splendido attraversamento del Pascoli famigliare,
in relazione alla Casa mia del Ritorno a San Mauro –,
dal momento che «in gioco è la sclerosi del
ricordo», vale a dire «la fissità e l’immobilità
che strappano la vita al tempo e la illudono, la incantano,
la riem-piono di significati supremi e inaccessibili, ma
contrari e indifferenti alla vita»; o, ancora, il
rischio che la «memoria» non sia «più
lo strumento di diagnosi di un presente malato, ma la carta
carbone di un passato monumentale». Tuttavia, a fronte
di timori profondi non troppo dissimili, anche in questo
caso la direzione di Piersanti appare diversa. Anche i revenants
non allettano né chiamano, ma offrono al poeta che
li interroga la cifra intera della sua esi-stenza, le ragioni
di un presente di abbandono e di solitudine. Non c’è
invito alla regressio-ne, come sottolineato anche dalla
decisione sonora e dal rifiuto dello stillicidio incantatore
dell’immobilità. Anche perché da questo
punto di vista è possibile avvertire l’attrazione
di Piersanti verso la lezione ritmica e percettiva montaliana:
del Montale del sogno fatto ad oc-chi aperti, della razionalità
appena trasognata, dell’evocazione pronunciata un
poco verso l’alto, del rammemorare nitido e sicuro
(anche lui, Montale, un giovanissimo che si era in-namorato
dell’Aminta); un Montale che si innesta allora, come
aprendola al vedere dei sensi e della ragione, o ai modi
di un’elegia che è anche un po’ racconto,
sulla originaria, congeni-ta disposizione della poesia di
Piersanti, che è essenzialmente vocale e vocativa,
sonora e di unitaria, sostenuta tonalità (una disposizione
anche ungarettiana, in tal senso, cioè tesa alla
sottolineatura della parola; la produzione ch’è
seguita ai Luoghi persi, più frammentata della precedente,
come se Piersanti si stia spostando un poco dall’evocazione
all’invocazione, sembra nuovamente testimoniarlo).
Ed è vero poi che il tragitto che riguarda la «casa
di pie-tra chiara / persa in fondo al fosso», è
tutto in uscita, lungo un sentiero che si allontana dai
luoghi, anche se il poeta, pellegrino smarrito «per
l’eterno», non trova poi un nuovo appro-do.
Come il ragazzo protagonista del Passaggio tentato, l’ultima
poesia della raccolta, che lascia la propria casa e tenta
inutilmente di entrare nel mondo del «fuori»;
ma si smarrisce, finendo per perdere anche la casa che aveva
lasciato (così è lecito domandarsi quali contrade
abbia attraversato, quali luoghi non abbia trovato, ma soprattutto
da quale paese o comunità non sia stata accolta,
negli ultimi decenni della storia italiana, questa figura
solitaria di sra-dicato, di uomo senza patria che ci viene
infine consegnata dalla poesia di Piersanti).
In Nel tempo che precede, la raccolta che seguirà
i Luoghi persi, si trova una poesia, Il giorno dell’arcobaleno,
in cui un pastore sogna di andare per il cielo, libero come
mai pri-ma, e di salire così sull’arcobaleno,
da dove, vera e propria visione del posto indimenticabi-le,
può scorgere l’immagine della casa perfetta.
Tuttavia, sentendo il richiamo più forte del gregge
che ha abbandonato, decide di rinunciare alla vista della
totalità e di scendere di nuo-vo a terra. Anche nella
vicenda più visionaria e fantastica, alla fine il
pastore – il poeta – sceglie la dimensione terrestre,
la via del ritorno, ancora una volta nella fedeltà
(nell’amore) verso le ragioni della vita. Non diversamente
con la sua storia di poesia anche Piersanti ha davvero piantato
il suo bastone per terra; e questo in un doppio senso: perché
dalla terra, proprio come il pastore, ha tratto sempre il
suo nutrimento di realtà e di concretezza, in una
saldatura continua con l’esperienza, ma anche –
ed è la cosa più importante, e difficile,
per un poeta – perché ha trovato un radicamento,
un punto fermo di realizzazione, una compiu-tezza espressiva,
anche la linea credibile di un destino, così da chiudere
il cerchio della sua poesia senza lasciare nulla d’intentato.
Roberto
Galaverni
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