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dal Volume Dopo la poesia. Saggi sui contemporanei Fazi Editore, 2002:

Il posto indimenticabile: le Cesane di Piersanti


 
Amiam, ché non ha tregua
con gli anni umana vita, e si dilegua.

Amiam, ché ’l sol si muore e poi rinasce:
a noi sua breve luce
s’asconde, e ’l sonno eterna notte adduce.

 
  Tasso 


Piersanti ha raccontato più volte come l’Aminta sia stato per lui il vero libro dell’adolescenza e poi della giovinezza, fino alle soglie della maturità. E davvero, conside-rando lo svolgimento del suo lavoro di poeta dall’esordiale Breve stagione (1967) all’ultimo I luoghi persi (1994), l’immagine del mondo vitalissimo, appassionato ma gentile della favo-la boschereccia di Tasso, che leggenda vuole iniziata proprio tra le colline del territorio di Urbino, rimane sempre all’orizzonte della sua poesia come il luogo luminoso, di pienezza e di gioia interamente terrestri, che con la sua rifrazione ricchissima ne costituisce il primo nu-trimento e insieme la direzione più certa. Credo che sia questo il primo elemento da rilevare, forse addirittura il più importante, perché sottesa a tutta la vicenda poetica di Piersanti è la tensione verso un’antropologia a fondamento naturalistico. E l’Aminta incarnava tutto que-sto in modo probabilmente inarrivabile: le forme sempreverdi di un mondo ancora pagano e felice, il vagheggiamento dell’età dell’oro, la perfezione appena turbata dei quadri pastorali. La motivazione, il senso stesso della poesia di Piersanti si trova senza dubbio da queste parti, tanto più che nella definizione del suo posto indimenticabile convergono subito anche le ra-gioni in senso profondo autobiografiche: il mondo collinare in cui prima il ragazzo e poi il giovane poeta s’inoltravano uscendo dalle mura cittadine, poi l’Appennino centroitaliano, tra Marche, Montefeltro e Toscana, quindi soprattutto le Cesane corrusche e un po’ selvagge della discendenza materna, s’incontrano infatti d’acchito e in modo probabilmente indistin-guibile con la definizione altissima offerta dalla letteratura. La poesia in Piersanti si proten-de così originariamente e per sempre verso un territorio pulsionale e liberatorio che si con-fonde con la giovinezza nel segno di una perenne fertilità.
È così che un sistema di relazioni molto fecondo si definisce prestissimo nell’occhio prensile, rapinoso di Piersanti, costituendo poi per sempre il quadro di riferimento dei suoi versi. Già nel primo libro, tra reminiscenze letterarie anche molto marcate ma con un’intenzione poetica subito chiara e decisa per sempre (ne fa fede anche l’introduzione di Gualtiero De Santi, suo sodale e interprete poi sempre intelligente, dove si mostra una comprensione molto precoce dei limiti delle operazioni neo-avanguardiste), prende infatti a delinearsi quel ricco ambito di suggestioni e di sollecitazioni che nel successivo Il tempo differente (1974), il libro forse più compiuto di Piersanti fino a I luoghi persi, appare interamente definito: il modello antropologico della città rinascimentale, la giovinezza con le sue scoperte, anzitutto l’amore e l’amicizia, la cerchia ristretta delle mura, protettiva e insieme limitante, l’isolamento nella provincia marchigiana, l’impazienza e la curiosità di pochi amici, la rivendicazione e la fedeltà alle proprie origini ma insieme la necessità di uscire, di rompere il tempo della breve stagione, già nel presentimento di una rottura destinata a durare, quindi gli studi e le prime letture, a partire da quella assolutamente non pacificante di Leopardi, fino a quella di Paolo Volponi, il migliore della generazione precedente, che aveva fatto il gran salto da Urbino, poi la scoperta della poesia contemporanea, ma anche l’avvicinamento alla politica e infine il richiamo, l’attrazione o l’alternativa dei boschi, la fuga catartica sulle colline, l’incontro con lo sfavillio del mondo della natura, lo sprofondamento riparatore nelle sue pieghe più ombrose e nascoste. Nel suo secondo libro Piersanti si riferisce a quest’ultimo appunto come al tempo differente; il tempo, ma anche il luogo, del mito, che via via appare però più lontano, d’improbabile accesso, eppure al contempo sempre più necessario e irrinunciabile, e come tale rivendicato e difeso strenuamente, prima con marcate implicazioni storico-politiche e civili, poi, sempre più sensibilmente, nell’ambito di una ora angosciata ora più ferma riflessione esistenziale.
È comunque sempre qui, all’ombra del cerchio chiuso di queste colline, inevitabilmente, che il poeta cerca qualcosa di non diverso dalla propria misura. E credo che sia appunto que-sto il primo dato da tenere per fermo: nel rapporto di Piersanti con i suoi luoghi è in gioco una questione d’identità, anche come una ricerca di consistenza resa tanto più necessaria da una densità psichica fortemente timorosa, attraversata da paure e ossessioni mai del tutto al-lontanate (e già il Tasso della canzone al Metauro: «fugace peregrino / a queste tue cortesi amiche sponde / per sicurezza vengo e per riposo»); prima fra tutte quella della perdita di un centro, di una radice, che progressivamente verrà identificata con l’antica casa di famiglia sulle Cesane. È per il poeta il richiamo, con valore anche protettivo, della sua situazione ti-po, della sua probabilmente unica invariante. Fin dall’inizio l’interesse che porta Piersanti verso il luogo-natura non si svolge infatti nei termini della polemica neo-capitalistica di un Pasolini o di un Volponi (solo qualche traccia nei primi due libri, poi più nulla); al contrario sono forti i rimandi al Pavese di Lavorare stanca, di Feria d’agosto e della Luna e i falò, che a questa altezza è senza dubbio l’autore più presente: il mito, la preferenza per il verso lun-go, i viaggi e il ritorno sui luoghi, il cittadino che conosce la campagna arrivandovi dall’esterno, cioè anche con l’occhio della cultura (ma più marcatamente in Pavese che non in Piersanti, che si definisce come un «contadino incorreggibile»), l’Appennino marchigiano che vale un po’ come le Langhe, dove spesso è il presentimento del mare dietro alla cresta delle colline (con la differenza importante che mentre in Pavese la donna è esclusa, è tabù, in quanto interrompe la possibilità del riconoscimento mitico, in Piersanti invece è quasi sempre presente e vi rientra perfettamente). Ma si avverte anche l’influenza di certa poesia d’area appenninica, che mette insieme non solo Pascoli (davvero fondamentale), il Luzi fi-gurativamente più concreto della stagione centrale, tra Primizie del deserto e Dal fondo delle campagne (ma anche la lettura dell’ermetismo deve esse stata importante, anzitutto per il sentimento di una certa altezza o nobiltà della dizione poetica), e il Volponi poeta (rispetto al quale il verso di Piersanti è comunque più mosso e variegato), ma anche qualcosa del Carducci maremmano, il poeta della malinconia virile e delle «motivazioni oscure», secondo la definizione brillante di Luigi Baldacci, come pure dell’invettiva politica e delle faide.
Un secondo punto anch’esso decisivo è che non si dà mai in questa poesia una mite revivi-scenza arcadica, il rischio vero della pacificazione idillica e consolatoria. E questo anzitutto perché l’avvicinamento di Piersanti al luogo è sempre un movimento ascensionale, di natura fisica ma anche spirituale; una concitazione che è indistintamente emotiva, conoscitiva e morale. Una sorta di fibrillazione cardiaca, di persino violenta espansione sensoriale accom-pagna l’ascesa ai siti meravigliosi e fedeli del tempo differente, che è dunque fondamental-mente attiva, energica, tutta tesa ad un acquisto. Si tratta di un ribollire del sangue, di una brama insoddisfatta, di una passionalità affamata e concupiscente, ricca di aspettative (le colline e i boschi, come detto, sono anche i luoghi dell’incontro con la donna, del vigore fi-sico e sessuale, degli atti amorosi e di fecondazione). Ma su questo primo dato temperamen-tale non aggirabile e capace di per se stesso di compromettere ogni eventuale staticità con-templativa, agiscono in Piersanti una precisa chiarezza intenzionale, la determinazione di un pensiero fortemente consapevole, una motivazione etica, che rappresentano il rovescio vo-lontaristico e razionale della sua poesia.
L’Appennino e le Cesane di Piersanti appaiono come uno scenario sincretico in cui agi-scono spinte diverse e variamente compenetrate, spesso contraddittorie, per cui sul ceppo in-trecciato della tradizione pagana e cristiana entrano con forza, soprattutto in Passaggio di sequenza (1986) e nei Luoghi persi, un immaginario di tipo gotico ed alcuni elementi di una mitologia di derivazione nordica (subentrando, anche se mai interamente, alla sensualità mediterranea degli amati poeti spagnoli, e anche di Neruda, con la loro sensualità e densità passionale; ma possono essere state importanti anche certe movenze lievemente romanze-sche e favolose del grande Machado). Allo stesso modo, sopra un’educazione contadina di tipo misterico-cristiano e su di un assetto emotivo portato anche oscuramente agli accosta-menti analogici, si innesta con molta decisione una nitida vocazione illuminista che si scon-tra con i timori culturalistici, con il senso di colpa e con le insidie dell’irrazionale (basta ri-farsi alla vicenda insinuante della biscia-rettile di una delle poesie migliori come appunto La biscia dei Luoghi persi: «quando mi stendo in terra / a riposare / viene allora la serpe, sale sul masso / diventa una persona, morta come / le anime che vedi dentro il bosco»). Da que-sto punto di vista ciò che inquieta Piersanti è proprio l’allegorizzazione magica della natura. Il numinoso e il trascendente, il rimando metafisico entrano controvoglia in questo poeta ch’è un laico netto, e che alla fine sceglie sempre la terra, la pura corporeità. Ma qui è ne-cessario essere chiari, perché si tratta di un punto importante: la tensione e la fede razionale in Piersanti sono infatti qualcosa di assolutamente diverso dal razionalismo astratto, perché mirano comunque alla salvaguardia delle prerogative dell’immaginazione e delle potenziali-tà fantastiche. Si tratta dunque di una percezione dello spessore della realtà terrestre molto lontana dalla mera volgarità di un materialismo immiserito.
Proprio per questo la perfezione di una totale compresenza può darsi soltanto là dove non si diano devianze metafisiche, cioè nel sogno di un rapporto diretto con la natura, nella for-ma del corpo di una donna o nel contatto che il pastore, il pastore-poeta già teocriteo e virgi-liano, ha con l’erba o con le piante. Per amare la natura Piersanti non ha bisogno di antro-pomorfizzarla, ma semmai di sentirla nella sua nuda presenza; solo lì ci può essere un’adesione completa da parte del poeta. Piersanti si nutre della terra, un po’ come la figura mitica di Anteo, il gigante figlio di Nettuno e della Terra, che appunto dalla terra derivava intera la sua forza e la sua invincibilità; tant’è che Ercole per poterlo sconfiggere fu costretto a tenerlo sollevato dal suolo, privandolo così del suo sostentamento. È dall’amore per la di-mensione terrena che Piersanti muove ogni volta. E giustamente Carlo Bo ha parlato di un poeta «impastato di vita» e che insieme «mira alla vita»; il che rimanda a una poesia creatu-rale, e così all’eros e alla tensione del desiderio, alla corporeità, ma insieme, necessariamen-te, al cruccio per una totalità vitale che non è mai dato di cogliere per intero e che comunque egli sa che è destino dover lasciare. In tutta la poesia di Piersanti, e tanto più nei momenti di maggiore esultanza, scorre un lento fiume di malinconia, qualcosa di grave e di cupo, di i-namovibile, che nella fase centrale della sua opera appare assai tormentato e difficilmente arginabile, ma che successivamente diventa più composto, approdando infine a una nuova fortezza. Il tormento più profondo sta allora per lui non tanto nel risucchio dell’irrazionale, quanto nel sentimento dell’estromissione dal luogo dell’amore e nella percezione acutissima della temporalità come un essere sottratti alla pienezza delle cose. La sua ricchezza poetica, i suoi toni e colori più persuasivi, dove la gioia è subito trafitta dagli spasmi per il dolore dell’abbandono, derivano anzitutto da questo ora violento ora più dolce attrito tra ritorno e fuga, tra possesso e privazione. Come ha visto molto bene Emanuele Trevi, nelle Cesane di Piersanti si rinnova la stessa «legge fatale che assegna ad ogni Arcadia un simulacro, nasco-sto ma visibile, della caducità e della sconfitta». Fin dalla sua prima definizione nel Tempo differente, il posto indimenticabile appare un possesso mai acquisito, ma attraversato da in-stabilità, da lacerazioni e da turbamenti. L’ossessione della perdita, dapprima come esclu-sione dalla giovinezza e dai suoi luoghi, è per questo poeta qualcosa di originario. Scrive per esempio in Questa svolta improvvisa:

Più non si darà il tempo della fuga
non vi saranno ancora i giorni d’abbandono
e l’adolescenza tenace, incanutita
oltre i lunghi anni e avversi.

Ora si sanno bacati
di tempo, riflessioni, paura
gli amori brevi del mito
gli dei sono morti a questa
prima, feroce svolta del tragitto.

Il tempo viene sentito come rischio di allontanamento e di estromissione dal bene. Ed è fa-cile comprendere come le incrinature stiano anche dalla parte del poeta stesso e non soltanto da quella del luogo e del tempo edenico, con cui egli si ostina a salvaguardare una continuità che per molti versi risulta molto presto indifendibile: «Un esorcismo, l’ultimo, fiaccato / or-mai dal sopravvento del tempo / della paura, il limite d’ombra / l’ululato di inquieti spiriti notturni» (A Sonia). Il timore dell’abbandono, ma il termine più esatto è del poeta stesso: la «paura»; quindi la percezione esasperata dell’invecchiamento, dell’esistenza come un cam-mino verso la solitudine, fanno sì che le svolte della vita, l’uscita dal «cerchio» meraviglioso del mito e più in generale il futuro vengano sentiti negativamente. Così, se nel suo secondo libro Piersanti raggiunge la consapevolezza del valore mitopoietico del proprio riferimento espressivo, è vero che nelle raccolte centrali, L’urlo della mente (1977), ch’è non a caso la sua più debole, e Nascere nel ’40, uscita nel 1981, il segno di questo tormento affiora talora con violenza, come per un sormontare di qualcosa di febbricitante, di una concitazione ner-vosa che rimane incomposta.
Anche Pascoli, così importante per Piersanti, specie nelle ultime raccolte, conosceva bene questa paura: gli spasmi della dispersione, la percezione quasi tattile di una vita sempre pronta ad offendere, la convivenza non tanto con gli abissi interiori, quanto con qualcosa di meno sublime ma di più sottile e insidioso, come il demone di un’insicurezza diffusa dap-pertutto, nella mente, nei nervi, nel respiro, in ogni tratto del giorno. Ma con una differenza molto grande: che se Pascoli proiettava tutto questo nella sonorità inquietante del verso e nelle sue figure, in una musica insinuante e ambivalente, perfino equivoca, così da slabbrare il quadro della rappresentazione fino a renderne incerta, sfuggente e alla fine indecidibile la collocazione esatta, in Piersanti al contrario il procedimento della scrittura mira a una chiari-ficazione, a un discernimento, a una definizione salda. In Pascoli tutto tende a scivolare all’indietro, come se il paesaggio e insieme la lingua della poesia venissero risucchiati verso qualcosa di pregresso che appare ora dolce e suadente ora invece infido, sinistro. Piersanti si muove invece verso la claritas, cioè verso la luce della ragione, la consapevolezza, l’evidenza sia sonora che d’immagine. Si tratta fondamentalmente di un movimento di natu-ra, e di moralità, classica: la scrittura o se si vuole la poesia come scelta, come decisione di essere in un certo modo. La direzione espressiva è infatti tutta in avanzamento, cerca nuovi territori, soprattutto una nuova sicurezza. Invece di tirare tutto quanto verso se stesso, il poe-ta tende ad appoggiarsi alla plasticità della dimensione esterna, a trovare un approdo nella visibilità delle cose, anche nei loro aspetti più impalpabili o viceversa più brumosi e ricchi di suggestione. L’escursione della poesia avviene sempre verso l’esterno. Così il suo incon-tro con la natura e più in generale con la presenza aperta delle cose viventi è investito anche di una responsabilità stabilizzante e comunque appare di per se stesso un bene. Il verso di Piersanti non tende mai all’ambiguo, allo sfumato, all’allusivo, alle velature oniriche, all’ineffabile, quanto invece, anche nella visionarietà del ricordo, alla finitezza e al rilievo completo dell’immagine. Tanto più nei Luoghi persi c’è l’aspirazione a qualcosa di definito e di definitivo, a una rappresentazione chiaramente distinta. Si prenda ad esempio la prima strofa dell’Attesa:

fino a dicembre resta il ciclamino
sotto le querce gialle e il pungitopo
in questa antica selva dove siamo
non la raggiunge il fumo delle case
oltre il cerchio perfetto che ci serra
scendono i solchi, gli orti e le verdure
resta – t’ho detto – ancora qui, tra i rami
guarda nel tronco rotto l’acqua scura
lago con i suoi legni andati a fondo
ora che le tempeste son cessate
quieto riluce nella selva intatta
ah! non scendere più nelle radure
e attendere poi quieti anche la sera

Nella scansione endecasillabica, nell’unità delle immagini resa più netta dall’assenza di enjambements (in genere poco frequenti nei Luoghi persi, come per contenere la già sostenu-ta intensificazione delle sequenze descrittive o memoriali), è possibile riscontrare subito come tutto, anche là dove maggiori sono il carico coloristico o la mobilità atmosferica, pos-sieda una perspicuità davvero notevole. Si direbbe che per questo poeta il raggiungimento più importante, l’autentico termine della sua poesia, risieda appunto nella capacità di aggan-ciare la propria vicenda alla evidenza irrefutabile della dimensione esterna e di conferirle in tal modo una stabilità che non viene comunque mai del tutto raggiunta. Il Piersanti migliore è proprio questo: la pronuncia è decisa, sicura, le figure e le immagini hanno pieno risalto, ma come portate, proprio per la necessità di cui si diceva, un poco di là da se stesse, come sostenute da una lieve solennità evocativa: lo sguardo innamorato delle cose innerva la vi-sione di qualcosa di giovane e verde, di sorgivo, ma sempre con un residuo d’ansia inappa-gata, di estasi mai pienamente goduta, tale da non consentire alcun indugio.
Va poi sottolineato come fin dall’inizio Piersanti non abbia temuto di essere fino in fondo se stesso, battendo, alla lettera, la diversa e impopolare strada del bosco in anni a quella davvero poco favorevoli. Rispetto alla fissità del pensiero ideologico il riferimento al tempo differente in un primo tempo ha significato anzitutto l’affermazione del diritto alla propria differenza individuale di contro ad ogni pretesa di uniformità; e ciò tanto più legittimamente in quanto il mito in Piersanti nasce e fonda il suo significato soltanto a partire dall’impegno e dalla responsabilità civile, ma assunti da una posizione fin da subito radicalmente, perfino violentemente anti-ideologica. Sia Il tempo differente, che Nascere nel ’40, che la parte ini-ziale di Passaggio di sequenza sono libri di forte caratura storico-politica; con la differenza che se nel primo, dunque fino alla metà degli anni Settanta, la via della Natura rimanda a una possibilità di integrazione rispetto alla dimensione civile, in seguito, con lo scadimento del Movimento nella violenza e nel terrorismo, fino all’impraticabilità degli scenari politici progressivi («noi che sognammo un mondo più gentile / persi com’eravamo nella lotta / è tornata a morire la pietà», sono versi dell’ultima poesia di Nascere nel ’40), il riferimento alle potenzialità naturalistiche e antropologiche del luogo assume un più preciso significato di alterità e di opposizione, anche quando esso sembra offrire garanzie di riparo sempre mi-nori. Nella seconda parte di Nascere nel ’40, scritta tra il 1977 e la metà del 1980, il risenti-mento e la critica sociale e politica sono continui ed hanno per oggetto lo schematismo ideo-logico, le mitografie irrazionalistiche, la semplificazione degli slogan e dei luoghi comuni, l’integralismo aprioristico delle astrazioni, e insomma i numerosi falsi miti (appunto) che di quella stessa degradazione hanno rappresentato il terreno fertile e largamente connivente.
È costante nei dati sia temperamentali che di pensiero di questo poeta un elemento di ri-volta, un non stare al gioco già prefissato e più prevedibile, un’originalità che viene rivendi-cata con fierezza e nel suo periodo centrale con un’ostentazione a volte fin troppo esplicita («Esigo il mio diritto d’eresia / la sacra libertà dell’inutile / dell’immediato del contingente / del provvisorio dell’individuale»). In tal senso, cioè nell’eccesso di giustificazioni, nell’insistenza sulla diversità e sulla legittimità delle proprie posizioni, nell’atteggiamento dimostrativo e volontaristico, talvolta nell’acredine, nei toni risentiti e nella rigidità dello sguardo che ne poteva derivare, anche lui, e proprio a partire da convincimenti sostanzial-mente giusti, ha pagato qualcosa per difendersi dal depistamento fin troppo diffuso di anni non molto felici per la giovane poesia italiana. Ma era forse qualcosa di dovuto e comunque di non limitabile al solo ambito poetico. Ricordo comunque che Massimo Raffaeli ha parlato di un poeta che «ha rigettato ogni credo che non fosse quello della libera commensalità tra uomo e uomo, con la donna, il paesaggio, i segni della storia». Per cui va detto che si è trat-tato per Piersanti di condividere la stessa difficile esistenza che la mentalità e la cultura della ragione laica hanno quasi sempre incontrato nella società italiana; come pure della distanza dai chierici di qualsiasi schieramento e dell’ostilità che da tante parti ne è derivata: il laico senza ideologia, ma con idee e ideali molto forti, col senso della complessità e della proble-maticità delle cose, ma insieme pienamente responsabile e appassionato.
Nascere nel ’40 è una raccolta segnata da un trauma personale a cui viene fatto riferimento più volte e coincidente, come detto, con la fine delle speranze ideologico-politiche e con l’entrata nell’irrazionalismo del presente. E anche se rispetto al precedente Urlo della mente i sintomi di una ripresa poetica sono ben visibili, molti elementi, a partire dalla schietta rievocazione dell’infanzia urbinate che occupa la prima parte (con un assieparsi fitto di ricordi e di nomi che rimanda a procedure di tipo neorealistico, rispetto a cui è anche possibile valutare quale scarto qualitativo si dia poi nell’invenzione memoriale dei Luoghi persi), sono da riportare a una volontà di accentramento biografico e di radicamento e in sostanza a un oltranzismo protettivo senza dubbio legati alla profondità dell’insicurezza psicologica. Anche il verso breve, fortemente sillabato, sembra obbedire alla stessa ricerca di consistenza. È come se la necessità difensiva e l’indignazione politica impedissero al poeta quel pieno, libero approfondimento reciproco della dimensione esterna e della conoscenza interiore che costituisce invece il punto di forza dei libri successivi. Soltanto nella parte conclusiva ritorna una maggiore fermezza, di nuovo in linea con il respiro più ampio che apparteneva al Tempo differente:

con te estranea al tempo che rammento
ripasso la vicenda
schianto gli arbusti nella macchia
guardo nel dopostoria di questi anni
il frutto lungo dello spino bianco

La raccolta si chiude (siamo nel 1980) con la definizione ormai compiuta dell’assetto che sarà della poesia di Piersanti lungo tutti gli anni Ottanta: estraneità rispetto alle vicende di un presente non più partecipabile («in due scappavamo dalla storia»; e si tratta di un elemen-to comune ad almeno due generazioni di poeti, tanto più dopo il discrimine del ’77), ma in-sieme, proprio quando il significato di compensazione del luogo diventa ultimativo, la pre-monizione di un incrinarsi profondo delle ipoteche protettive del «verde giardino». È infatti l’identità incertissima di un sopravvissuto, sono le inquietudini esistenziali che in varia mi-sura avevano sempre percorso questa poesia, a venire approfondite in Passaggio di sequen-za, nell’esasperarsi della percezione di quel «maledetto tempo» che allontana dalla giovinez-za e che passa «perfino alle cesane»: il rammarico per l’invecchiamento («miei quarant’anni messi di traverso / che un eros ostinato affatica»), l’angoscia per la temporalità come con-sumazione («questo tempo che passa a cui non posso / altro che opporre gli attimi del mi-to»), l’impossibilità di prolungare la stagione felice («avrei voluto / la mia vicenda eterna»), la consapevolezza «d’essere sempre più estraneo / a questo luogo / ch’è stato solo mio a se-dici anni», l’immagine di un uomo che «ostinato / arranca dietro il tempo differente», in una fedeltà attardata e solitaria, orgogliosa, anche se turbata da una ferita mai del tutto superata («solo rimane l’ombra che mi colse / spessa anche nell’ora ch’è più chiara / e questa età di mezzo che procede»).
Ma Passaggio di sequenza è un libro di grande esuberanza vitale e, per così dire, giocato in attacco. Piersanti per la prima volta non ha più bisogno di legittimare il proprio mondo poetico, ma vi si diffonde con sicurezza, anche con esultanza, nel libero attraversamento di perdite e di acquisti. L’ascesa alle colline è alimentata da una volontà di apertura e di accre-scimento, da un desiderio vorace, da una continua accensione fisica ed erotica. Il rovescio del pensiero malinconico è infatti la contemplazione attiva dello spettacolo visibile della na-tura, sia nel presente che nei sempre più frequenti rimandi memoriali. Soltanto a questo pun-to si può parlare di un riferimento totale alla Natura: mentre nelle raccolte precedenti si trat-tava soprattutto di un paesaggio immobile di orti, di antiche pievi e conventi, di eremi e di rocche, da contrapporre alla dispersione del mondo esterno, ora, nelle sovrapposizioni della memoria che attraversano il presente, sommuovendolo sia per amplificazione che per dimi-nuzione, l’attenzione è tutta al tempo delle sorprese vitali, dello spegnersi e del germogliare, del fluire in piena della vita. Passaggio di sequenza rappresenta la raccolta di maggiore eu-foria creaturale di Piersanti, che ora dispiega interamente la sua passione naturalistica (e così quella precisione terminologica che vale un po’ come l’anima pascoliana della sua lingua poetica) e insieme la propria vocazione georgica, come poi ha visto bene ancora Bo in rela-zione ai Luoghi persi, cioè legata anche alla dimensione antropologica e culturale dell’universo contadino, e per quel tramite, va infine aggiunto, all’infanzia. Tutto è scorri-mento e attività, a partire dalla pasta ricchissima delle serie endecasillabiche, sia dal punto di vista coloristico che sonoro, fino alla frequenza davvero altissima delle forme verbali. Già nel titolo stesso del libro e di numerosi componimenti, e con un preciso significato stilistico e strutturale, vi è un richiamo esplicito al motivo del trascorrere, con forti implicazioni ci-nematografiche, in particolare con le tecniche del flash-back e ancor più del piano sequenza, che rimandano inevitabilmente anche alla contemporanea esperienza di composizione filmi-ca di Piersanti. Si tratta di un vedere estremamente fisico, sempre puntualmente determinato e mai soddisfatto, pur nel rampollare delle scoperte e delle accensioni cromatiche; di un procedere metonimico dello sguardo, con rapidità e per accumulo, con un dinamismo nei passaggi e con un vigore percettivo che allontana da qualsiasi approdo di tipo impressioni-stico. Qui Piersanti scrive con una euforia dimostrativa tale da sfondare in una specie di elo-quenza elegiaca. Ed esiste una correlazione profonda tra la percezione del rigoglioso movi-mento del paesaggio fisico e quel sentimento della fugacità del tempo a livello biografico di cui si diceva più sopra: lo sguardo sulle stagioni di passaggio slitta di continuo nella consa-pevolezza dell’avvicendamento delle età della vita, negli sdoppiamenti o nelle voragini tra l’«ora» e l’«allora» che segnano i due tempi su cui sono scandite la maggioranza di queste poesie.
Si può dire allora che la novità dei Luoghi persi consista nella sostituzione di questo vede-re fisico estremamente determinato con una modalità evocativa più visionaria eppure più certa. Piersanti non sale più al luogo per protrarre la continuità con la giovinezza; allo stesso modo si attenuano l’impeto agonistico, il vitalismo salutifero, le rivendicazioni della stagio-ne precedente. Anche nella sezione iniziale, Per tempi e luoghi, che pure è ancora vicina ai modi di Passaggio di sequenza, da ogni parte arrivano segnali che qualcosa si è spezzato, che la continuità con il passato è andata infranta. Per molti versi sembra che a tale riguardo non ci sia più nulla da difendere o da dimostrare e che il poeta sia pronto per una lettura di-versa del proprio destino. La tarda poesia di Piersanti, la sua differita, difficile maturità, na-sce sul deserto, nella spoliazione («deserte sono adesso le cesane / cessano le presenze o vanno altrove»); e la poetica memoriale non si amplifica per aggirare questa acquisizione ma per renderne infine ragione: la perdita non è più un fatto accidentale, un tradimento improv-viso dell’esistenza, una stagione della vita, ma qualcosa di essenziale, di originario. E in tal senso mi pare che la definizione più giusta riguardo ai Luoghi persi sia stata avanzata da Giovanni Tesio, quando ha indicato «la vera radice del libro» nella «nuova coscienza della morte, alla quale non si può sfuggire, e che nessun eros può eludere, perché ne costituisce, anzi, l’annuncio più funesto».
Come un fantasma che si aggiri sulla cerchia ormai gelida dei suoi colli, Piersanti si volge all’indietro, chinandosi sul luogo perduto per interrogarlo e trovare le ragioni della sua sto-ria, come fosse una costellazione da cui derivare il proprio oroscopo. Infatti non è più que-stione della giovinezza ma più radicalmente dell’infanzia: è allora la «Cesana sconfinata» del ricordo, là dove si trovano la «casa in fondo al fosso» e la famiglia, le figure della madre e soprattutto della nonna Fenisa, autentico lare domestico e responsivo; è questo luogo ori-ginario che, apparso come una folgorazione in una poesia di Nascere nel ’40 («Poi vidi / la casa vecchia / di mia madre, degli altri / della mia razza») e affiorato più volte nel corso di Passaggio di sequenza quale indizio di una totalità ormai lontana, nei Luoghi persi si pone infine come la cifra stessa di un destino di sradicamento e solitudine. La necessità poetica molto più che elegiaca a questo punto è conoscitiva. Piersanti considera la propria vicissitu-dine come già compiuta, consumata in un certo modo, e cerca di illuminarla nelle radici, nelle scelte e negli accadimenti che ne costituiscono il fondamento. Ed è un fatto importan-te, perché il punto di vista e il tono delle poesie cambiano sensibilmente:

lascia l’orto, le cose e s’incammina
giunge che l’aria imbruna alle foreste
di spini immense, salgono il costone
lì non separa il tempo notte da giorno
scura c’entra la nebbia e vi ristagna
gocciola dagli sterpi l’acqua nera
lunghissimo è il tragitto ma poi arriva
alle falde del monte piene d’erbe
cessa il verde più in alto mentre sale
resta la genga, così bianca che abbaglia

ora il cielo che tocca è spesso vetro
lieve traspare l’ombra quando cammina
pendono fitti gli astri come ciliegie
quando maggio le sparge per i rami
sali tre passi ancora, vieni da noi
– lo lusinga il folletto coi sonagli –
qui la pioggia non batte, si ferma il tempo
e la morte s’è persa che fuggivi
è stato il suo ribrezzo che ti porta


Sono due strofe della Montagna di genga. Lo sguardo raggiunge a questo punto la massi-ma estensione e capacità comprensiva, in quanto vi si narra una storia di formazione, esem-plare e definitiva, alla vita come temporalità dispersiva, come incontro con la diversità, co-me allontanamento dalla casa nel fosso: «viveva ormai nel tempo / sapeva come / il risveglio era fuori della conca». Spesso non si trova più il poeta che parla in prima persona, ma la fi-gura autobiografica protagonista è quasi sempre un «lui»; la voce del racconto procede senza corrosioni e incertezze, con una storia in cui il favoloso coincide con l’indubitabile, come se fosse stata ritrovata incisa sul tronco di un albero del bosco vicino alla casa (per cui la voce poetica potrebbe anche essere quella della nonna o dei mani domestici: «solo per la Fenisa l’acqua disegna / le storie della gente»). Più ancora che di racconti, si tratta allora di vicen-de-leggende (e Vicende è appunto il titolo dell’ultima e più alta sezione). Nei Luoghi persi viene così messo a frutto anche quanto di sperimentale e di tentato si trovava in Passaggio di sequenza: certi snodi bruschi del discorso, certe slogature e violazioni logico-sintattiche, le procedure di coordinazione e le ellissi (quest’ultime alla base anche dei romanzi, L’uomo delle Cesane e L’estate dell’altro millennio), la minuscola iniziale, l’assenza di punteggiatu-ra, che nascevano come fedeltà ad una musica del paesaggio oltre che come liberamente mimetiche della parlata dialettale contadina e del suo universo di narrazione orale, diventa-no ora indistinguibili dagli scarti e dai raccordi della visione, dalla sua cadenza epica, insie-me imprevedibile ed elegante, con fedeltà assoluta alle folgorazioni, al sormontare delle premure essenziali (allo stesso modo non si può nemmeno parlare in senso proprio di descri-zioni, ma di presenze certe, date come per sempre, non troppo diversamente da quanto acca-de nell’universo narrativo delle fiabe). A questo punto Piersanti pare trovarsi nel momento della massima fecondità creativa e immaginifica della sua parabola poetica, della maggiore padronanza dei propri temi e materiali, così da moltiplicare la consistenza e lo spessore del proprio territorio poetico, fino a portarlo come al di là di se stesso; che è di per se stesso un risultato importante. Ricordo allora Josif Brodskij, là dove dice che «l’atto di conferire a un luogo lo status di realtà lirica comporta più immaginazione e più generosità che non l’atto di scoprire o sfruttare qualcosa che era già creato».
Come La montagna di genga, anche le altre poesie di Vicende sono parabole di iniziazione alla perdita e all’esilio; apologhi che dicono di un destino sbagliato, di orfanità, e di una vita che non potrà essere, e che non è stata, quella che si voleva. È quanto si apprende, ad esem-pio, dalla conclusione dell’evocazione della madre (nell’attacco dolcissimo di questa ch’è una delle migliori poesie di Piersanti: «madre ch’eri fra tutte la più gentile...») e della fami-glia in Nel tempo che precede: «prima che nascessi furono insieme / stavano tutti là presso l’aiuola / a pescare castagne nel caldaro / ora mancano tutti, manca una casa / solo prima di nascere l’ho avuta»; oppure dall’incontro con la fata e dalla sua amara premonizione in Vi-cenda: «lasci la casa dolce nel mattino / l’unica che vedo ti è concessa / e tu la cerchi un giorno inutilmente»; o anche dal confronto con la «serpe nera» nella Biscia: «ma chi ha per-so la fonte / l’acqua che sola / impedisce alla biscia di tornare / è meglio che s’abitui alla presenza».
L’esclusione dalla casa: anche qui il rimando a Pascoli è inevitabile. «Troppo importante è sapere se il cancello con la mimosa è una patria o una perversione» – si era chiesto Cesare Garboli, nel suo splendido attraversamento del Pascoli famigliare, in relazione alla Casa mia del Ritorno a San Mauro –, dal momento che «in gioco è la sclerosi del ricordo», vale a dire «la fissità e l’immobilità che strappano la vita al tempo e la illudono, la incantano, la riem-piono di significati supremi e inaccessibili, ma contrari e indifferenti alla vita»; o, ancora, il rischio che la «memoria» non sia «più lo strumento di diagnosi di un presente malato, ma la carta carbone di un passato monumentale». Tuttavia, a fronte di timori profondi non troppo dissimili, anche in questo caso la direzione di Piersanti appare diversa. Anche i revenants non allettano né chiamano, ma offrono al poeta che li interroga la cifra intera della sua esi-stenza, le ragioni di un presente di abbandono e di solitudine. Non c’è invito alla regressio-ne, come sottolineato anche dalla decisione sonora e dal rifiuto dello stillicidio incantatore dell’immobilità. Anche perché da questo punto di vista è possibile avvertire l’attrazione di Piersanti verso la lezione ritmica e percettiva montaliana: del Montale del sogno fatto ad oc-chi aperti, della razionalità appena trasognata, dell’evocazione pronunciata un poco verso l’alto, del rammemorare nitido e sicuro (anche lui, Montale, un giovanissimo che si era in-namorato dell’Aminta); un Montale che si innesta allora, come aprendola al vedere dei sensi e della ragione, o ai modi di un’elegia che è anche un po’ racconto, sulla originaria, congeni-ta disposizione della poesia di Piersanti, che è essenzialmente vocale e vocativa, sonora e di unitaria, sostenuta tonalità (una disposizione anche ungarettiana, in tal senso, cioè tesa alla sottolineatura della parola; la produzione ch’è seguita ai Luoghi persi, più frammentata della precedente, come se Piersanti si stia spostando un poco dall’evocazione all’invocazione, sembra nuovamente testimoniarlo). Ed è vero poi che il tragitto che riguarda la «casa di pie-tra chiara / persa in fondo al fosso», è tutto in uscita, lungo un sentiero che si allontana dai luoghi, anche se il poeta, pellegrino smarrito «per l’eterno», non trova poi un nuovo appro-do. Come il ragazzo protagonista del Passaggio tentato, l’ultima poesia della raccolta, che lascia la propria casa e tenta inutilmente di entrare nel mondo del «fuori»; ma si smarrisce, finendo per perdere anche la casa che aveva lasciato (così è lecito domandarsi quali contrade abbia attraversato, quali luoghi non abbia trovato, ma soprattutto da quale paese o comunità non sia stata accolta, negli ultimi decenni della storia italiana, questa figura solitaria di sra-dicato, di uomo senza patria che ci viene infine consegnata dalla poesia di Piersanti).
In Nel tempo che precede, la raccolta che seguirà i Luoghi persi, si trova una poesia, Il giorno dell’arcobaleno, in cui un pastore sogna di andare per il cielo, libero come mai pri-ma, e di salire così sull’arcobaleno, da dove, vera e propria visione del posto indimenticabi-le, può scorgere l’immagine della casa perfetta. Tuttavia, sentendo il richiamo più forte del gregge che ha abbandonato, decide di rinunciare alla vista della totalità e di scendere di nuo-vo a terra. Anche nella vicenda più visionaria e fantastica, alla fine il pastore – il poeta – sceglie la dimensione terrestre, la via del ritorno, ancora una volta nella fedeltà (nell’amore) verso le ragioni della vita. Non diversamente con la sua storia di poesia anche Piersanti ha davvero piantato il suo bastone per terra; e questo in un doppio senso: perché dalla terra, proprio come il pastore, ha tratto sempre il suo nutrimento di realtà e di concretezza, in una saldatura continua con l’esperienza, ma anche – ed è la cosa più importante, e difficile, per un poeta – perché ha trovato un radicamento, un punto fermo di realizzazione, una compiu-tezza espressiva, anche la linea credibile di un destino, così da chiudere il cerchio della sua poesia senza lasciare nulla d’intentato.

Roberto Galaverni

 
 
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