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Corriere Romagna 21
giugno 2002:
Omaggio alla patria poetica
La trasfigurazione di un paesaggio fisicamente determinato
in un luogo di poesia è probabilmente l’ambizione
più grande di ogni scrittore che sia rimasto fedele
nel tempo a una terra unica e insostituibile – quella
terra ch’egli ha eletto una volta per sempre a riferimento
esclusivo della sua ispirazione poetica. In una tradizione
come quella anglosassone a un tale livello di realizzazione
artistica viene attribuito il riconoscimento più alto.
Ma anche in quella italiana, almeno là dove essa si
è mostrata più aperta e consapevole. All’indomani
dell’uscita di Viaggio d’inverno di Attilio Bertolucci,
il poeta che da Roma continuava sempre a guardare con un amore
dolcissimo e struggente alle colline della sua Casarola emiliana,
il grande amico Vittorio Sereni mostrava di avere compreso
tutto su questo punto. «Installandoti in un paesaggio
sempre più stabilmente hai finito col sovrapporgliene
un altro che giganteggia sul precedente. Avere un patria poetica,
esserne il sovrano – scriveva Sereni a Bertolucci –
è doloroso lavoro di anni; ma è anche il massimo
risultato».
Sono parole che mi pare valga la pena di richiamare riguardo
alla situazione di poesia di Nel tempo che precede (Einaudi,
2002), l’ultimo libro di versi di Umberto Piersanti,
il poeta di Urbino che è da sempre il cantore della
Marche più settentrionali, quelle che si spingono verso
il Montefeltro e la Romagna, o invece, più al centro,
verso la Toscana, ma anzitutto delle colline dure e ispide
delle Cesane, la terra della discendenza familiare ch’è
l’autentico centro ispiratore di questo poeta. Le Cesane
sono per lui l’origine e la misura di tutte le cose,
il luogo delle radici e dello spaesamento, della continuità
con se stesso e della vertigine, della perdita e del ritrovamento
dell’identità, della fuga e della passione amorosa,
ma anche dell’orientamento nel tempo dell’esistenza,
della maturità difficile, del confronto con la sua
responsabilità di uomo e di padre.
È per questo che Piersanti ogni volta si inchina con
devozione e tremore sulla sua terra, come chiedendo la verità
di un responso alla costellazione che lo ha generato. Lì
stanno le scaturigini della vita e il mistero della morte,
la pienezza e la continuità rigenerante della natura,
il tempo misterioso e inesauribile del mito – appunto
il tempo che precede – dov’è stato tracciato
il percorso di un destino ch’è anche una ferita.
Lì, ancora, si trovano l’insidia del bosco con
le sue prove, ma anche la casa della famiglia perduta: la
casa in fondo al fosso dove questo poeta, ch’è
ossessionato dall’abbandono e dalla solitudine, ancora
può sentire le voci dei suoi lari domestici, sempre
capaci di guidarlo e di consolarlo. C’è qualcosa
di inguaribile per Piersanti in tutto questo. Perché
quel luogo, ch’è il luogo stesso della vita,
ogni volta lo decide, ponendolo in relazione con qualcosa
di radicale e di irrinunciabile, qualcosa che lo pervade e
lo intride, che gli batte forte nel sangue e che lo scuote
nel profondo.
È appunto in tal senso che si può parlare di
un sovramondo poetico. Con Nel tempo che precede Piersanti
ha sicuramente raggiunto la piena padronanza dei suoi giacimenti
di poesia e insieme dei propri strumenti espressivi. Da questo
punto di vista non deve giustificare più nulla riguardo
alle sue necessità e predilezioni. Il suo luogo ha
acquisito la totalità significante di un autonomo mondo
di rappresentazione, in una piena esplicazione delle potenzialità
fantastiche e dell’immaginazione creatrice. E si tratta
di un universo rappresentativo dove la realtà terrestre,
in una prospettiva di fiero laicismo ma al contempo in antitesi
rispetto a qualsiasi ipotesi realistica volgarmente immiserita,
possiede uno spessore molto ampio, in cui razionalità
e laicismo convivono con il sentimento dell’ineffabile
e del perturbante, la percezione netta delle cose non esclude
l’ansietà e l’incantamento, la veglia può
essere intrisa di visione. E in questo senso possiede una
universalità che proietta questa poesia ben al di là
della sua particolarità storica e geografica.
La figura del pastore che è protagonista della prima
sezione del libro – un pastore virgiliano che ha attraversato
il Canto notturno e conosce allora le grandi domande della
modernità leopardiana – rappresenta appunto una
situazione antropologica compiuta. L’incontro con un
bosco abitato da strane presenze (come lo sprovinglo, la strega
della pozza, la fata-farfalla Morgana), la materializzazione
dei fantasmi dell’inconscio, i rituali propiziatori
e il riferimento alla parola acquisita della tradizione, valgono
qui in senso non cronachistico ma assoluto. Le vicende del
pastore (in continuità con l’ultima sezione del
precedente I luoghi persi) sono altrettante parabole di iniziazione
alla vita, che si svolgono in un’aura fiabesca o favolosa
di forte impronta nordica, in cui Piersanti pare aver definitivamente
calato e risolto il suo iniziale legame con la sensualità
mediterranea degli amati poeti spagnoli della prima metà
del Novecento (con quanto poteva essere ad essi più
vicino qui in Italia). E se certi sentieri conducono all’incontro
con un luogo di pienezza (così «la Pozza / sconfinata,
/ l’acqua non quella dei fossi / chiara e coi bordi,
/ ma azzurra come il fiore / dell’erba spagna»),
altri invece portano nell’oscurità dello smarrimento:
«nessuno deve entrare dentro / il bosco che la vitalba
chiude / e cinge intorno».
Piersanti si muove ormai sulla sua terra con libertà
e sicurezza, con la gioia, anzitutto, che gli deriva dalla
consapevolezza di muoversi nel luogo della massima intensità
delle sue percezioni e passioni, del suo sentire e comprendere.
Di qui la sua pasta linguistica umorale, ubertosa, che traguarda
la febbrile filologia naturalistica pascoliana in una dimensione
di nettezza e di decisione formale. Di qui anche la qualità
di giovinezza della sua voce, sempre fresca e insieme possente,
capace di entusiasmi nell’incontro rinnovato con i sentieri
auratici della pienezza, ma ferma e vitale anche nei momenti
di maggiore mestizia e dolore. Nel corso della presente raccolta
la sonorità della voce piersantiana si acuisce anzi
ulteriormente, così da conferire maggiore evidenza
e intensificazione evocativa all’eccellenza dei suoi
incontri poetici (anche se questo, per contrappeso, porta
a cedere qualcosa della incantata distensione elegiaca che
apparteneva all’endecasillabo dominante nel libro precedente;
qui il ritmo è più scandito, anche per l’imporsi
imprevisto e asintattico delle precedenze della visione, con
intere sequenze costruite come per endecasillabi spezzati:
un settenario seguito da un quaternario o da un quinario).
Nel tempo che precede è un libro in movimento, costruito
su di uno svolgimento ricco ma pulito. Alle vicende del pastore
succedono le davvero toccanti, talvolta gentilissime poesie
Familiari (nella terza sezione, la migliore assieme alla prima
e ad alcuni spunti dell’ultima), in particolare nel
riferimento alla figura del padre, che assieme al pastore
è l’altro cardine di questa raccolta poetica.
Se I luoghi persi sono il libro della madre (e della casa
perduta di famiglia), Nel tempo che precede è invece
prima di tutto il libro del padre (e così di quei sentieri
che sono le strade, spesso dure, del dovere). Perché
la figura del padre rinasce nel corpo del poeta stesso, del
suo amore presente – e del suo dolore sgomento, anche
– per il destino silenzioso del figlio malato: «padre
che m’hai condotto / alla muraglia / e tra le crepe
hai colto / rossi fiori, / la vita m’ha concesso / un
solo giorno / d’esserti uguale padre, / con il figlio».
Con questa raccolta di versi Piersanti ha percorso e dissodato
largamente la sua contea poetica, fino quasi a darle fondo.
Tra cronaca e memoria, l’ultima sezione del libro, che
è anche quella composta più di recente, fa intravedere
non a caso una probabile nuova e diversa stagione della sua
poesia, più malinconica e ferma, più disposta
alla riflessione esistenziale, con una inquietudine (e una
saggezza) rivolta soprattutto all’esistenza presente:
«penso ai miei tanti giorni / fuori stagione».
Ma evidentemente, così come il libro, anche la poesia
di Piersanti è in cammino, sempre dentro e fuori dai
luoghi, e forse addirittura oltre essi. Dipende da dove lo
porterà la strada bianca, di una luce non metafisica
ma pienamente terrestre, a cui questo poeta continua instacabilmente
a guardare, sempre con la speranza – credo – di
poterla un giorno imboccare per non abbandonarla mai più:
«ma aprimi la strada tutta bianca / quella dove io cammino
/ già domani» .
Roberto
Galaverni
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