Un preciso nucleo significativo anima la nuova raccolta di Umberto Piersanti, ne attraversa il corpo delle poesie ponendosi come senso sostanziale, come meta ultima del percorso che ciascuna di loro – con la propria specificità – tratteggia: il sentimento dell’irraggiungibile alterità. Questo sentimento aleggia nei suoi Campi d’ostinato amore (La Nave di Teseo, 2020, pp. 176, € 19), accompagna e arrovella il poeta sia che ne pervada i versi, sia che aspetti al loro margine: misura di una distanza incolmabile che attende alla mancanza per mezzo della memoria, la poesia di Umberto Piersanti ora ne approfondisce integralmente le trame e le modulazioni, i diversi motivi, affetti e aspetti che suscita ed esprime.
Già posizionato nelle viscere della sua poetica in modo lampante almeno da I luoghi persi (e chi scrive pensa nello specifico a poesie quali Oggi non c’è più neve nei miei colli o Il passaggio tentato), il tema in questione si fonda concettualmente nel necessario confronto che la vita umana, soggetta alla perdita, attua tra la propria essenza lineare e quella circolare della natura, soggetta invece al rinnovamento: per l’esistenza singolare non tutto «ciò che fu torna e tornerà nei secoli», e la coscienza di questo provoca il senso della separazione irrimediabile tra il presente e il passato assieme al desiderio di riparare in qualche modo alla separazione stessa. Così, è la dinamica che questo senso e questo desiderio attuano ad aprire il libro con Il passato è una terra remota (pp. 13-14):
quando la casa cambi
o la dimora,
salgono le memorie
fitte alla gola,
e se tendi la mano
quasi le tocchi,
ma il muro che le cinge
è d’aria o vetro,
nessuna forza
lo può oltrepassare
il passato è una terra remota
magari non esiste,
non sai dove
Impedito l’accesso diretto alla mancanza che la memoria evoca, la riparazione fattuale della frattura si dimostra impossibile e si converte perciò in una riparazione figurata, in un offrire riparo – un luogo – a ciò che è venuto a mancare: non più solo in parallelo, le coordinate temporali si sovrappongono dunque a quelle spaziali come indica l’identità del titolo – sovrapposizione che, sospendendosi in una incognita, apre a una possibilità di ricerca: dov’è ciò che non torna? Perseguita in tutto il libro, questa ricerca parte con la prima sezione (omonima della poesia di cui sopra) dal remoto – dall’infanzia di Piersanti e dalla sua patria poetica, le Cesane. I lettori che hanno consuetudine con la poesia dell’autore ritroveranno lì personaggi e vicende, eventi, luoghi, oggetti, piante e topiche a lui care: però, in questa occasione, vediamo quei riferimenti assumere nel complesso un senso nuovo, come se fosse aggiunta loro una sfumatura. Di questo senso ulteriore è esemplare La fonte dei due gelsi (pp. 63-66), che così si conclude:
lui ha deciso
sale nella macchia
e nel folto s’addentra
tra ceppi e rovi,
e cammina, cammina,
passano le ore,
non più avvampa il sole
nel meriggio,
i piedi sono gonfi,
braccia e mani coi raspi,
anche un po’ il viso,
della fonte non c’è traccia
alcuna,
nessuna radura s’apre
nel gran folto,
ma un ramo è caduto
dal vecchio sorbo,
colmo di frutti
tutti tondi e sugosi,
allora lui si siede,
no, non c’è la fonte,
gli resta rami
e foglie,
l’erba buona,
guarda il falco altissimo
nel cielo
e le sorbe succhia,
lentamente
La poesia si svolge in due atti: «l’Antico», su richiesta del nipote, racconta la storia della fonte scomparsa; troviamo poi il nipote mettere in atto la ricerca della stessa. Oltre l’inserto di storia partigiana, che potrebbe echeggiare un episodio delle Metamorfosi, è interessante ora notare il meccanismo della narrazione, il quale comporta un passaggio: da destinatario del racconto il nipote si trasforma in protagonista di una prova: entrando nella «macchia» non solo egli sottopone a verifica quanto gli è stato detto, ma mette alla prova sé stesso come soggetto capace di raggiungere la favolosa meta e, non trovandola, si ferma a un segno che la prova è compiuta, sebbene con esito negativo – il «ramo […] caduto/ del vecchio sorbo», la traccia di qualcosa d’altro.
La dimensione della prova nei diversi sensi indicati attiva percorsi – non senza sfumature e intrecci – che fanno risuonare una parte e l’altra dell’intera raccolta, trasversalmente alle sezioni: ecco allora che la prova raccontata collega Settembre 1943 (p. 15) e 10 settembre 1943 (p. 36) con Al Fontanino (p. 86), Erbe sul tronco (p. 111) e Il canto dei frati bianchi (p. 119); la prova in atto Esame d’ammissione (p. 39), Dieci minuti in acqua (p. 43), Fuga d’infanzia (p. 49) con Jacopo sul palco (p. 75) e con Greppi (p. 113), Dentro il duomo di Parma (p. 128), Rubabandiera (p. 135); la prova in quanto segno Befana 1947 (p. 21) e L’aquila della Wehrmacht (p. 54) con Jacopo ormai grande (p. 77) e con Altrove (p. 81), L’antica casa (p. 92), Da un canto barocco (p. 116). Si è detto nella raccolta, ma si sarebbe tentati di ardire queste risonanze anche con l’opera poetica di Piersanti finora: la densità dei rimandi in quella che è senza alcun dubbio una delle voci poetiche più solide del panorama italiano contemporaneo invita alla retrospettiva per via delle isotopie che, se prima erano alluse, ora si dichiarano.
Come non leggere oggi nel favagello anche un emblema dell’autore stesso con Febbraio 1941 (p. 25)? Come non vedere nel suo laico presepe il miracolo del nucleo familiare originale e dunque eterno con 25 dicembre 1942 (p. 17)? E, ancora, come non sentire nel suo già citato Antico, Madío, un modello di narratore poetico? Proprio questa ultima estensione semiotica sembra essere qui quella più gravida di conseguenze poiché, assieme alle dimensioni prima indicate, esibisce il forte valore antropologico che per Piersanti ha la poesia – con importanti risvolti estetici nel nuovo libro. Quello di Umberto Piersanti è un canto continuo, che si prende delle pause ma non si interrompe; in Campi d’ostinato amore i ritorni e i parallelismi su cui il canto si compone ne divengono l’essenza stessa a livello micro e macro-testuale: il sentimento dell’oralità della lingua, che l’Antico esemplifica, raggiunge una forza unica e fondativa; seguendo una direzione iniziata almeno con L’albero delle nebbie, le strutture del fraseggio e del verso si asciugano in elementi precisi, nitidi ed essenziali, in note di una musica che procede per emistichi e brani sintattici.
Avvicinandosi a una propria classicità, è dunque la stessa poesia a farsi prova per Piersanti: con una elegia che accogliendo l’idillio si fa inno, egli porta il suo microcosmo e i suoi riferimenti fissi a confrontarsi in modo umano con la ciclicità altra e imperitura della natura; le Cesane a sconfinare «con la Galassia»; il suo canto ai limiti della soglia verso «l’Immenso» – argomento, quello della soglia, su cui si concentrano nello specifico le poesie brevi della raccolta e che, a parere di chi scrive, sono tra le più belle nel tipo di tutto il repertorio dell’autore. È la poesia, grazie alla memoria, vita dentro la vita, il posto dove può permanere ciò che è assente: praticata con tanto più vigore mentre mostra le sue debolezze, è luogo del senso contro la sua mancanza – tenace seppur fragile, a un tempo.
In un pensiero laico, che può sperare ma non crede in gioie oltre il mondo, dunque dalla struttura orizzontale ma non superficiale, bensì spesso e profondo quanto i flutti che ospitano i Volti sull’acqua (p. 60) e le Metamorfosi (p. 100), in cui la selva è quella delle esperienze umane tutte, tanto della luminosità di Era l’ora perfetta (p. 136) quanto del risentimento verso la Primavera bugiarda (Nei mesi del Covid), la poesia che dà nome al libro, Campi d’ostinato amore (pp. 73-74), assume una centralità programmatica:
ora tu stai rinchiuso
nelle stanze
e il mio ginocchio che si piega
e cede
a quei campi amati
d’un amore ostinato,
sbarra l’entrata
aspetto i favagelli
del febbraio,
tiepidi contro il gelo
sbucare fuori