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da Corriere della Sera 1 novembre 2020:

Il passato non esiste eppure lo trovi a Urbino
di Roberto Galaverni


Umberto Piersanti (Urbino, 26 febbraio 1941: foto di Amedeo M. Turello) sono tratti dalla raccolta Campi d’ostinato amore, edita da La nave di Teseo

In tempi in cui tutto sembra adeguarsi alle mode, al politicamente corretto o alle circostanze del momento, come non apprezzare chi si mostra più ostinatamente fedele alle proprie passioni, ai propri rovelli esistenziali, alle proprie insistenze e chiodi fissi? Umberto Piersanti, il poeta di Urbino, è senz’altro così. Ha sempre portato con sé le sue ossessioni, infatti, riuscendo a metterle a fuoco e a cantarle nella poesia, ma senza per questo potersene e volersene davvero liberare. Proprio come accade ai poeti veri, insomma, ha saputo trovare le parole, e non si può che essergliene grati.
Ogni volta che appare una sua nuova raccolta di versi si deve prendere atto anzitutto della necessità di un immaginario poetico, e dunque di luoghi, figure, situazioni, motivi, che appaiono inevitabili, e che sembra impossibile staccare da una certa inclinazione dello sguardo, da un particolare timbro della voce, e in sostanza da un molto rilevato e originale modo di poesia messo a punto nel corso degli anni. È ciò che accade anche con il suo nuovo arrivato: Campi d’ostinato amore (La nave di Teseo). Il libro fa centro infatti su quel luogo, l’altopiano delle Cesane, subito a est di Urbino, che strada facendo ha acquisito i crismi di un’autentica patria poetica. Dunque luogo reale e dell’immaginazione (ma come distinguere, di fatto, i due aspetti?), della natura e dello spessore antropologico, dei ricordi e dei sogni, di storie o meglio di «vicende», detto con una parola elettiva del poeta, che sono insieme leggenda e verità memoriale. È da lì, dalle Cesane, che viene il ramo della discendenza materna; ed è da lì che giungono anche i bagliori e il calore dei ricordi più indelebili: i primi contatti col mondo, gli episodi d’iniziazione alla vita, il sentimento dell’armonia e della perfezione (la famiglia riunita nella «casa del fosso»), ma anche dell’abbandono e dello smarrimento (Piersanti è un poeta d’istintive e ataviche paure).
La prima e più consistente sezione del libro, Il passato è una terra remota, verte esplicitamente sul rapporto tra la pienezza auratica degli affioramenti memoriali e l’incontro con l’aridità, la durezza, l’incomprensibilità della storia (gli anni della guerra e immediatamente successivi) o del presente di chi adesso ricorda e scrive. «E come te/ m’aggiro/ estraneo e perso/ dentro il mondo nuovo», si dice in una poesia dedicata al padre. Ma è vero che la raccolta intera risulta pervasa dalla presenza memoriale, in quanto la memoria a questo punto non è solo ciò che consente la poesia, il suo tramite o trampolino di lancio (parliamo della madre delle muse, del resto), ma anche il più importante dei suoi argomenti. La memoria, e dunque la battaglia o le brevi tregue col tempo. Si tratti dell’evocazione di episodi e figure del passato, oppure di Jacopo, il figlioletto malato, o ancora degli animali e delle piante amatissime, mai Piersanti aveva insistito così tanto nel contrappuntare i suoi racconti in versi con una riflessione sulla reale consistenza dei ricordi e sul loro trapassare inavvertitamente in sogni, sull’ineluttabilità e insieme sull’illusorietà del tempo, e allora anche, prima e ultima, su quella strana, imperscrutabile legge che è il rapporto di dare e avere con la vita.
Perché anzitutto questo va compreso. Piersanti è un poeta che ama la vita e che alla vita si tiene anzi ferocemente aggrappato. Per questo può rammaricarsi del suo scorrimento fatale. Fugit irreparabile tempus: il celebre motto delle Georgiche (Virgilio è un autore molto importante per lui; ma andrebbero ricordati almeno Leopardi e Pascoli) può valere davvero per tutta la sua poesia. Del resto proprio l’idea della perdita, che ritorna tante volte anche in questa raccolta, è la più importante per qualificare il rapporto che intrattiene col passato e più in genere con la realtà tutta. Ciò significa che per questo poeta non esiste nessuna vera età dell’oro, nessun eden che viva al di fuori o all’insaputa del tempo. Nessun canto dei bei tempi che furono o che saranno, dunque («Il passato è una terra remota/ magari non esiste,/ non sai dove»). Al contrario, non si trova nessun riparo, nessuna «cerchia» magica che preservi davvero dal confronto con le incombenze e responsabilità di uomo. Da questo punto di vista la ferita, quella ferita misteriosa e insieme mirabile che è la vita stessa, non può essere rimarginata.
Eppure è altrettanto vero anche il reciproco, ossia che l’offesa non raggiunge mai un punto di non ritorno. Piersanti non strappa mai il quadro. È troppo istintivo o, viceversa, troppo saggio per spostarsi sul secondo dei due estremi tra cui si tende il suo arco poetico. La sua campata elegiaca si svolge invece con equilibrio tra possesso e perdita, sgomento ed estasi, mestizia e vitalità. Ciò che importa è la loro alternanza; meglio ancora, la loro coesistenza. Ed è stato bravo, Piersanti, perché ha saputo fare del suo grande nemico, il tempo, anche un alleato, mettendo da parte ab origine qualsiasi rancore e cogliendo invece le offerte delle diverse stagioni dell’esistenza, assecondando gli anni che passano quel tanto che basta per non perdere, e perdere davvero, la sua vita. Così adesso, nella tarda età di Campi d’ostinato amore, il suo repertorio poetico entra in una strana lontananza in cui tutto, passato e presente, si fa più vivo e accorato proprio perché più distante.
Il poeta si rivolge a sé stesso in seconda persona, come si trattasse di una vita forse soltanto sognata da un altro sé, ma sapendo sempre bene che non è tutto e soltanto così: «questa casa/ che non sai dove sia/ ma fuori, fuori/ da ogni plaga della memoria / anche la più remota,/ da ogni storia e vicenda,/ ma vera, vera/ più d’ogni altro giorno,/ d’ogni altra ora/ che sia la più chiara/ o la più cupa».

 


 
 
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